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Riferiamo di “Nel fuoco”, l’ultimo lavoro del regista e drammaturgo palermitano Giuseppe Massa che, dopo un debutto a Piacenza, è andato in scena domenica 23 novembre, a Catania nello spazio di Zo e nel contesto della rassegna di teatro contemporaneo “Altre scene”. Uno spettacolo politico che possiede la durezza di un pugno nello stomaco e la ruvida, diretta, forza di un’arte che vuol restare ben piantata nella realtà senza rinunciare a schierarsi e denunciare. Nel caso in specie, la denuncia riguarda la persistenza tra di noi di un razzismo violento e tanto più gretto quanto più mescolato a ignoranza e ad atteggiamenti mafiosi o para-mafiosi: lo spunto drammaturgico è l’ episodio reale, accaduto a Palermo nel febbraio del 2011, del suicidio di un marocchino, il ventisettenne Nourredine Adnane, venditore ambulante che, esasperato dalle continue vessazioni della polizia municipale, decide ad un certo punto di darsi fuoco per gridare al mondo la sua rabbia, la sua disperazione. È un episodio dolorosissimo che il drammaturgo ricostruisce e propone mediante il flashback con cui il personaggio (è molto efficace la resa dell’attore iraniano Maziar Firouzi), giunto ormai agli ultimi tragici istanti della sua vita (i vestiti sono già zuppi di benzina), da una parte ripercorre la sua storia di migrante e la sua quotidianità di povero venditore ambulante di una miserabile, benché luccicante, mercanzia e, dall’altra parte, prova a rassicurare la sua bambina (Habibi), restata in Marocco, che il suo papà è sempre grande e coraggioso come lei lo ha conosciuto. La lingua con cui questa vicenda è ripercorsa è un misto di arabo, italiano malfermo, francese e siciliano: una lingua che, nella sua dolcezza, sa comunicare emozioni e sdegno, sa comunicare il male ed essere implacabile nel denunciarlo. Sono due i rischi che potevano indebolire fino a falsificare un’ operazione teatrale de genere: un eccesso di pathos, soprattutto nella tenerezza con cui Nourredine si rivolge alla figlia, e un eccesso di facile ideologia antioccidentalista, nella pur sacrosanta condanna del razzismo. Due rischi che Massa è bravo a focalizzare nel loro nucleo d’immoralità e che quasi sempre riesce a evitare, grazie ad una scrittura che lascia che sia il grumo di dolore, esasperazione, solitudine, rabbia e spaesamento a dire (a urlare) se stesso. Gli elementi di contesto (la violenza sottile del quartiere che gli impone di rinunciare al suo vero nome, Noureddine, e accettare di farsi chiamare Franco, il giovinastro vigliacco e mafiosetto che lo insolentisce per noia, i vigili urbani ignoranti e razzisti, accecati dal loro piccolo miserabile potere, che lo assillano gratuitamente), pur rappresentati nitidamente, sono invece semplificati ed assolutizzati, quasi a dire che non si tratta di fatti esclusivamente palermitani. E del resto basta sfogliare i giornali di questi giorni per capire quanto ciò sia ancora brutalmente vero dovunque nel nostro paese e in ogni angolo del mondo occidentale.