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Incontro Emanuele Conte, drammaturgo, regista e attuale direttore artistico del Teatro della Tosse di Genova, nella sede di Sant'Agostino in un via vai di persone, soprattutto giovani, che è il segno del rinnovato rapporto di questo storico teatro con la sua città. Un rapporto vivo di scambio,

fatto non solo di spettacoli prodotti o ospiti, tra questi negli ultimi anni alcune delle realtà più importanti della scena europea, ma soprattutto di relazioni rinnovate e reciproche, di stimoli dati e ricevuti, di laboratori e convegni, di incontri e di sostegni. La città ha risposto e risponde molto bene a questo approccio così che gli spettatori, nuovi o tradizionali, crescono e le occasioni si rinnovano e moltiplicano.

1) Emanuele da ormai sette anni dirigi il teatro della Tosse che sta per traghettare ormai i quarant'anni di vita. La direzione di un teatro importante come La Tosse impone un doppio impegno, da una parte politico, amministrativo ed istituzionale, dall'altra artistico. Vorrei in questo nostro colloquio cominciare ponendo l'accento su questo secondo aspetto a partire dalla trilogia sul potere che, dopo Antigone e Caligola completerai con un nuovo UBU ROI. Rispetto alle forme contemporanee di un potere sempre più liquido e nascosto, lontano dalla stessa percezione delle persone, che senso intendi dare a questa tua elaborazione incentrata su tre dei momenti al riguardo più significativi e classici del discorso drammaturgico moderno?

Devo innanzitutto precisare che la scelta di UBU ROI come terzo elemento della trilogia è stata in un certo modo necessitata in quanto l'anno prossimo cade appunto il quarantennale del nostro teatro e per tradizione ogni nostro decennale è stato contrassegnato da una nuova edizione dell'UBU che in effetti è diventato un po' il simbolo della Tosse. Detto questo i tre testi sono francesi, quindi assicurano per così dire una continuità di percezione, e tutti fanno riferimento al mondo giovanile, in modo diverso certamente ma con una modalità comune che vede la sensibilità dei giovani confrontarsi con il tema del potere. Per questo mi sono accorto, procedendo con la messa in scena, che come noto sempre in qualche modo interferisce, completa e anche modifica l'intendimento iniziale, che l'aspetto più interessante della trilogia era appunto il rapporto con i giovani. Era in sostanza la capacità di attrazione che queste narrazioni hanno sui giovani e sulla loro ansia e difficoltà a rapportarsi anche oggi con il mondo adulto e dunque con il potere che ne è una articolazione fondamentale. Da qui anche la scelta di far interpretare ad un giovane attore la parte di Caligola, parte per la sua importanza tradizionalmente riservata all'attore principale della compagnia se non al Capocomico. Questa mutazione, da una parte come detto stimolante nel sollecitare il dialogo con le nuove generazioni e tra le nuove generazioni ed il teatro, dall'altra mi crea qualche dubbio circa la sua conclusione con il mio nuovo UBU ROI, che nasce in un contesto simile, ma che meno sottolinea l'aspetto della ribellione generazionale e giovanile nei confronti del potere.

2) Venendo al “Caligola” che ha esordito in questa stagione mi sembra che tu abbia puntato ad evidenziare, nell'ambito del complesso discorso di Camus sulla tirannia, l'aspetto di smascheramento che l'atteggiamento estremo ed estremistico di Caligola (la vocazione all'impossibile) ha rispetto ai meccanismi stessi di un potere degradato e ormai privo di legittimazione. Si direbbe quasi che la tua drammaturgia e la tua regia mostrino una sorta di “simpatia” nei confronti del giovane imperatore. È una impressione corretta?

In verità non era questa la mia intenzione. Io ho cercato di rendere nella sua pienezza e senza privilegiare nessuno dei suoi molti aspetti un testo estremamente stratificato come quello di Camus, che io amo molto proprio perché esprime una ansia ed una richiesta di assoluto. È questo travaglio forse anche di identificazione dell'autore nel personaggio, testimoniato dalla continua revisione del testo, che penso costituisca l'elemento di smascheramento e non solo del potere. Infatti ho scelto l'ultima versione e non quella tradizionalmente messa in scena perché l'ho percepita come la meno “romantica” e quindi quella in grado di dare più spazio ad un anti - integralismo e ad una anti – retorica essenziali in un'epoca come la nostra, forse la più intrisa di retorica, in cui domina l'ipocrisia. Abbiamo combattuto nel novecento la morale cattolica per poi trovarci dominati da morali parziali e altrettanto pericolose, da integralismi, da quello animalista a quello ecologico ad esempio, privi di un anelito complessivo. Forse per questo amo in modo particolare il Caligola di Camus, perché non dimentica di ricercare un senso complessivo, appunto l'assoluto.

3) Un altro aspetto del Caligola mi è sembrato importante, quello della morte della sorella amante Drusilla che è, anche come conseguenza della versione da te scelta, fuori scena ma che sembra costituire la premessa analitica se non il fondamento significativo delle vicende successive. A questo riguardo quale è secondo te la relazione innanzitutto estetica ma anche psicologica tra sentimento, come limite alla vertigine del vuoto e dell'onnipotenza, e il potere?

Devo dire che ho scelto la versione del 1958 proprio perché lo stesso Camus nelle sue varie elaborazioni aveva progressivamente portato fuori testo questo evento forse proprio per evitare equivoci. La morte di Drusilla fuori scena non è dunque scelta registica quanto, da parte mia, una adesione all'intenzionalità del testo che in sostanza a mio parere iscrive questo evento più che altro come pretesto drammaturgico. Il rapporto dunque tra il prima e il dopo l'ho visto non tanto per la specificità dell'evento, la morte dell'amante e il conseguente vuoto dei sentimenti, quanto per la sua generalità, cioè come un evento drammatico che imprime una improvvisa accelerazione alla esistenza singola e impone un modo diverso di vedere e rapportarsi con il mondo. Tra l'altro, come saprai, Gianmaria Martini, che impersona Caligola, ha cominciato a fare l'attore dopo che un incidente lo ha costretto ad interrompere la sua carriera di pilota sportivo. Per questo ho scelto che Caligola entrasse in scena come se fosse appena uscito da un incidente automobilistico, proprio per sottolineare la valenza generale dell'evento drammatico che impone la svolta nella vita e nella rappresentazione, quindi anche nel suo aspetto estetico, evento che può essere di natura psicologica, sentimentale o quant'altro.

4) Un'ultima domanda sul Caligola. Secondo te il legame tra Caligola e Drusilla insieme alle metamorfosi sessuali che attraversano la drammaturgia danno indicazione circa una eventuale declinazione di genere del potere presente in Camus?

Solo in quanto l'analisi di Camus punta all'assoluto, io credo, l'aspetto di genere che assume il potere e la lotta per il potere è una lettura possibile, su cui peraltro non ho inteso soffermarmi, non per una specifica attenzione a questo aspetto del testo e della messa in scena. L'analisi del potere come modalità generale di approccio e comprensione del mondo, quasi un ribaltamento della condizione antropologica penso sia l'aspetto prevalente. La questione del genere secondo me non rientrava ancora nell'orizzonte di Camus in quanto, a mio parere, non interessato ad una articolazione psicologica o sociologica del suo discorso che rimane eminentemente filosofico. Per quanto riguarda poi la contemporaneità io sono convinto che la dissoluzione della famiglia tradizionalmente intesa imponga una rilettura delle articolazioni del potere nella Società, rispetto alla quale la politica e anche la cultura appaiono in ritardo.

5) Nel complesso la tua attività artistica mostra una particolare attenzione ed attitudine alla scrittura, non solo nel senso della scrittura scenica, ma anche come attenzione al testo. Questo comporta secondo me una naturale propensione alla drammaturgia contemporanea italiana e anche europea. Nel più ampio contesto nazionale, spesso caratterizzato da scelte “facili”, quanto “paga” artisticamente e non solo questa propensione?

Innanzitutto, per meglio rispondere, vorrei sottolineare che le scelte teatrali per quanto mi riguarda non devono rispondere solo a criteri di successo ma possono anche essere scelte artistiche fini a sé stesse. In linea generale quello che più mi interessa è parlare alla contemporaneità, è dialogare con il contemporaneo. In questo quadro innanzitutto non mi interessa particolarmente la tradizione perché credo sia, non tanto poco attraente artisticamente, quanto inefficace. È naturale così l'attenzione da una parte al testo, antico e moderno che sia, per gli elementi di modernità, talora sorprendenti, che nasconde, dall'altra alle potenzialità di resa scenica, la scrittura dunque intesa nel suo complesso. A riguardo ti porto ad esempio Pirandello che ho riscoperto e valorizzato tra i miei interessi. Io credo che Pirandello, pensa a “Stasera si recita a soggetto” tra gli altri, contenga elementi di modernità stupefacente ma che ad oggi il suo linguaggio narrativo sia scenicamente incongruo. Lo stesso dicasi per Shakespeare le cui modalità tradizionali di rappresentazione sono improponibili (si assisteva in piedi, entrando, uscendo, mangiando ad uno spettacolo di quattro ore). In questo sta il problema della contemporaneizzazione, problema sia di linguaggio dunque che di messa in scena. Un altro ma non secondario aspetto di questo approccio mio e del Teatro della Tosse è lo spazio che vogliamo dare alle scritture contemporanee, di cui Cantiere Campana rappresenta un esempio credo di successo. È un aspetto questo sia artistico che amministrativo e politico in senso lato che non solo offre spazio a giovani drammaturghi e giovani compagnie italiane, spesso prive di un “luogo” in cui operare, ma costituisce anche un elemento di attrazione per il pubblico giovane che in effetti risponde bene a questo nostro impegno organizzativo. Un impegno che si è arricchito con il “Premio Scenario” di cui recentemente siamo diventati membri effettivi.

6) Guardando i cartelloni sembra persistere una dicotomia produttiva ed estetica tra teatro italiano e teatro europeo. Il primo ancora caratterizzato dalla prevalenza del drammaturgo-attore che produce testi anche originali per la propria compagnia, il secondo invece caratterizzato da una maggiore distinzione di ruoli, tra testo e regia in particolare, con produzioni pubbliche caratterizzate dal coordinamento del Dramaturg che predispone il testo per la regia. Sei d'accordo e, se sì, pensi che sia per l'Italia un segno di arretratezza o di feconda originalità?

Direi che il Teatro della Tosse è con il tempo diventato un organismo teatrale ibrido che ricompone in modo originale gli elementi citati nella tua domanda. Siamo insieme, e spesso contemporaneamente, una Compagnia che compone e produce gli spettacoli per sé stessa ed una sorta di Dramaturg collettivo che predispone e riorganizza, talora riscrivendoli, i testi per la messa in scena. In entrambi i casi avendo un occhio di riguardo ai limiti e alle potenzialità dei luoghi della rappresentazione e dei rapporti ravvicinati con il pubblico che a volte contraddistinguono la messa in scena. Questo ha qualche volta anche messo in difficoltà attori abituati a modalità più  convenzionali. Nel fare ciò dobbiamo inevitabilmente essere molto interattivi e fondamentale è la collaborazione tra me e, ad esempio, Fabrizio Arcuri o Elisa D'Andrea nella trasformazione di testi e progetti scenici. Dunque se parli di ruoli ben definiti la risposta è negativa, ma se intendi funzioni in vario modo distribuite allora direi di sì. In questo vi è il mantenimento di una originalità e specificità feconda che si incista con le più tradizionali esperienze europee.

7) Che spazio può, dunque, avere secondo te dal punto di vista sia artistico che più concretamente produttivo il drammaturgo italiano che “scrive” un testo letterario destinato alla scena?

Potrebbe e dovrebbe averne uno molto grande, ben al di là degli attuali limiti strutturali, e alla luce di questo sono nati appunto “Cantiere Campana”, la partecipazione al “Premio Scenario” e la rassegna concorso “Per voce sola”.

8) Il Teatro della Tosse ha tradizionalmente avuto un atteggiamento sempre aperto e costruttivo rispetto alle nuove realtà della scena Italia, sia direttamente che promuovendo eventi e festival rivolti sia ai giovani scrittori (ultima la rassegna dei monologhi) che alle nuove compagnie. Come intendete proseguire ed irrobustire questo progetto che ha consentito a molte interessanti esperienze di entrare in un circuito rappresentativo altrimenti precluso?

Innanzitutto, come detto, con il nostro maggior impegno nel “Premio Scenario” di cui  cureremo le preselezioni in Liguria per portare alla fase finale tre o quattro nuovi spettacoli. E poi aprendo uno spazio anche alla musica contemporanea assente a Genova, “Le strade del Suono” uno spazio curato da un giovane compositore genovese, Matteo Manzitti, e che consentirà la conoscenza di tanti musicisti ora costretti ad operare all'estero.

9) Preservare ed innovare una tradizione quale quella di Luzzati, di Tonino Conte, di Aldo Trionfo, è il difficile compito di cui tu e l'oggi del teatro della Tosse vi siete caricati. Come pensate di proseguirlo e portarlo a termine senza rimanerne prigionieri?

Non si rimane prigionieri nella misura in cui ci se ne assume integralmente la responsabilità. Intendo dire che, al di là di aspetti materiali ed esistenziali che non è ora il caso di affrontare, per me lavorare qui o altrove sarebbe stata probabilmente la stessa cosa dal punto di vista dei risultati. D'altra parte ciò che è accaduto una decina di anni fa è accaduto in un momento ed in un contesto di profonda crisi del Teatro della Tosse, crisi che ha in un certo senso coinciso con la morte di Emanuele Luzzati. Era un processo necessario quello che ha portato la Tosse nella situazione attuale, che vede una crescita degli spettatori e del suo peso nella comunità, un processo che mio padre ha avviato e condotto fin dove ha potuto e che io, anzi noi abbiamo proseguito, con l'originalità e la specificità dei nostri autonomi progetti. Su questo si fonda quella che ho definito assunzione di responsabilità che è il modo di assumere una tradizione e preservarla rinnovandola e adattandola.

10) Un' ultima domanda più diretta e personale. Come è nata e cresciuta questa tua esperienza artistica e come valuti il tuo lavoro drammaturgico in relazione alla tua più complessiva esperienza di direzione di un teatro importante?

La mia esperienza artistica è nata ed è cresciuta qui, sin dall'adolescenza, attraverso la conoscenza e la frequentazione di persone straordinarie, siano o meno note e famose, la cui cultura e la cui sensibilità affondava le radici nel patrimonio artistico e teatrale italiano. Parlo ad esempio di Luzzati che tutto conosceva della pittura, del teatro o dell'opera lirica ma te ne parlava con la semplicità giusta che in quei mondi ti consente di entrare. Parlo di mio padre che aveva costruito la sua esperienza su letture sconfinate, ma parlo anche di tanti altri il cui nome non è così ricordato fuori da queste mura. Poca o niente “accademia” dunque, al suo posto, cosa molto “italiana” tra l'altro, una trasmissione diretta di sensibilità che non imponeva idee ma, filtrata dalla mia sensibilità, le creava. Un ambiente straordinario quello della Tosse che mi ha garantito gli strumenti per coltivare una mia esperienza, sia artistica che di direzione, che in fondo sono la stessa cosa almeno qui da noi, indipendente ma solidamente ancorata al suo fertile terreno. Sono stato in questo  fortunato.

Un Direttore e un Drammaturgo e insieme una sorta di moderno Capocomico erede di una ormai consolidata esperienza, questo mi sembra essere oggi Emanuele Conte nel e per il Teatro della Tosse e la sua comunità. Con una particolare qualità, l'attenzione non “retorica” al mondo giovanile e alle sue difficoltà a farsi adulto, per così dire, senza rinunciare a sé stesso, cioè senza rinunciare a modificare un mondo che, anche nell'aspetto del potere, appare sempre più sclerotizzato e vecchio. Interpretando, non si tratta tanto di avere giovani in posti di responsabilità, lo dimostra anche la “politica”, quanto che questi giovani non debbano rinunciare a rinnovare effettivamente e a “mettere in discussione” questo mondo. Una realtà giovanile che dunque pare oscillare tra utopia e rinuncia. La triade, di reciproca identificazione, Caligola/Camus/Conte che permea questa almeno parte di questa conversazione appare dunque significativa. La voglia di assoluto e di verità di Caligola segno della necessità di un cambiamento che Camus organizza in senso filosofico e che Emanuele Conte si sforza di interpretare drammaturgicamente ed anche operativamente. Il tutto all'insegna, direi, del quesito tragico a base di ogni teatro anche contemporaneo. Il “caso” che, privato del suo fondamento assoluto, sia questo il “fato” divino o l'ideologia totalizzante, tende a trasformare l'azione dell'uomo, psicologica, politica o estetica che sia, in follia. Da fatalità a casualità, come nella tragica fine di Camus, da caso a caos. Una fascinazione molto attraente certo cui sembra contrapporsi l'esigenza di un operare concreto ed inclusivo in cui la tradizione ha valore in quanto sostiene e per così dire convalida il presente e la sua novità.

 

Foto tratta da http://genova.erasuperba.it