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Talora intercettare nuovamente un testo complesso e stratificato come “Gennant Gospodin”, del giovane drammaturgo tedesco Philipp Lohle, in una diversa versione e traduzione consente di apprezzare quanto la “messa in scena” costituisca sempre l'evento che quel testo rende presente, concreto e immediatamente significativo, ma anche per questo “instabile” per così dire ed in continua metamorfosi nel presente del palcoscenico.
Ben lo comprendeva la grande critica teatrale del novecento che non si negava la ripetuta visione di uno spettacolo, anche nella medesima versione e con la stessa compagnia, per valutarne, negli attori e nella organizzazione scenica, le spesso illuminanti mutazioni.
Ancor più se si tratta di un testo la cui articolazione narrativa è sintatticamente complessa e fondata su una parola, appunto, dal senso stratificato che la scena cerca di penetrare e disarticolare per dispiegarne le potenzialità significative nell'evento della rappresentazione, nello specifico caratterizzato tra l'altro da una doppia interpretazione, da una parte di regia e di riscrittura drammaturgica, dall'altra di traduzione testuale di un'opera tra l'altro ancora inedita in Italia.
Così nel maggio scorso Mario Jorio aveva utilizzato il dramma di Lohle per la sua mise en espace alla piccola Corte dello Stabile Genovese, nella traduzione di Umberto Gandini (protagonisti Marco Falcomatà, Alice Giroldini e Giulio Della Monica), impostando la sua scrittura scenica grottesca e surreale sul rapporto individuale, e dunque sull'irresolubile contrasto, tra maschera ed essenza soggettiva, in cui l'ingenuità, quasi un Idiota senza le vertigini dostoievskiane, dell'individuo e la sua fiducia nella corrispondenza tra parola e suo significato, tra definizione ed azione, è irrimediabilmente travolta in un mondo etero-diretto in cui il “capitalismo” è divenuto metafora universale e quasi sua metafisica.
Gospodin si vede così privato del suo Lama, tramite verso l'autosufficienza naturale, viene privato di tutti i suoi beni, che rappresentano e surrogano le impossibili relazioni umane, e nel disperato ultimo tentativo di sottrarsi al mondo privandosi dell'ultimo denaro “sporco” di cui era venuto in possesso, finisce in galera per paradossalmente ritrovare, nella costrizione del carcere, i principi della sua libertà (“essere liberi vuol dire non decidere” afferma) altrove irrealizzabili.
Quasi contemporaneamente Giorgio Barberio Corsetti ha impostato la sua versione di quel medesimo testo e propone questo “Gospodin”, nella traduzione di Alessandra Griffoni a cura del Goethe Institute, visto il 7 dicembre alla sala Trionfo del Teatro genovese della Tosse.
Stessa narrazione, dunque, ma nella prospettiva della nuova riscrittura l'impressione è che il contrasto da interiore e soggettivo si faccia per così dire sociale e pubblico, o “politico” in senso lato, in quanto la presunta ingenuità di Gospodin si rappresenta qui come vera normalità ed umanità in funzione di smascheramento di una Società grottesca, in cui il dominio capitalistico esercita senza opposizione reale la sua egemonia, trasformando gli uomini e le donne in maschere sempre in bilico tra la commedia e la tragedia.
Gospodin appare dunque come l'unico e ultimo personaggio autentico, ancora carico di una certa umanità, perdente certo ma forse solo fino ad un certo punto, laddove riesce a trasformare il simbolo stesso di una società corrotta e corruttrice (il carcere) nel luogo stesso della sua (presunta?) liberazione.
Paradosso, ovvero “pura invenzione poetica”, che smaschera e ci rappresenta dunque, come individui e come comunità, per Barberio Corsetti, in un adesso che si ripete da troppo lungo tempo.
Uno spettacolo quest'ultimo che utilizza, poi, le bellissime e multimediali scenografie dello stesso regista, qui coadiuvato da Massimo Troncanetti, come sorta di iper-testo, cassa di espansione ed eco, del testo narrativo, che quasi si squaderna intorno ai protagonisti riproducendo e motivando nell'immagine la parola recitata.
Una rappresentazione in transito, fin oltre la scena stessa, in cui si muovono con sapienza il protagonista Claudio Santamaria, un Gospodin paradossalmente umano che accetta talora con sofferenza ma sempre con onestà ciò che è, insieme a Valentina Picello e Marcello Player, bravissimi per  mimica e capacità trasformistica a calarsi nei vari personaggi che attorno a lui ruotano, scelta rappresentativa questa che conferma quasi la diversità ontologica tra il nostro e le maschere che lo assediano.
Detto delle scenografie, vanno apprezzati i costumi di Francesco Esposito, un tourbillon quasi da trasformista, le luci di Gianluca Cappelletti ma soprattutto l'impianto video di Igor Renzetti e i due graphics, Lorenzo Bruno e Alessandra Solimene, che tanto contribuiscono alla perfetta resa della scenografia in primis e di conseguenza della scrittura scenica.
Un testo forte che, come nella versione della piccola Corte, anche in questa prodotta da FattoreK/L'uovo teatro stabile di innovazione in collaborazione anche con Romaeuropa Festival, ha ricevuto tanti e convinti applausi ieri alla Tosse.