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Un senso di costrizione e impedimento, di impotenza e fatica, di labirintica dispersione di riferimenti e orizzonti, è quello che si respira in questa rivitazione de Il castello di Franz Kafka, adattato e diretto dalla giovane Francesca Caprioli, che mantiene il titolo tedesco originale Das Schloss. Lo spettacolo, andato in scena al teatro Due di Roma nell'ambito del progetto Cantieri contemporanei, che si allunga fino al 25 gennaio, dà prova di una seria frequentazione dell'opera kafkiana, metabolizzata a dovere, di un senso estetico forgiato e di una disinvoltura direttiva che promette bene.
La riduzione mantiene gli snodi cruciali del romanzo e procede con un montaggio di scene ben definite, e la regia si nutre di idee precise che arrivano chiare e testimoniano di un pensiero coerente, evoluto, che permette l'immissione in suggestioni kafkiane già prima che faccia il suo ingresso K, il protagonista agrimensore attorno al quale si svolge l'intricata vicenda.
Corpi che strisciano come rettili fuoriusciti da grandi contenitori, nicchie misteriose e unici elementi scenici, polifunzionali, che gli attori muovono a restituire l'idea di spazi incontrollabili, ingestibili, oscuri: è questa la scena molto kafkiana che anticipa una probabile dichiarazione di intenti. Stiamo per vestire i panni dei personaggi raccontati da Kafka, e a porgerceli sarà proprio il suo alter ego.
Tant'è: K entra in scena carico di costumi e la vestizione ha inizio. Ogni personaggio viene identificato da un elemento diverso -una gorgiera inamidata, un tutù di tulle, un fiocco dal colore sgargiante. Sono giocose citazioni di costumi, più che altro, come lo è lo stesso castello, rosso e montato a vista sul proscenio: un'idea di castello, perché la convenzione sia chiara fin dall'inizio.
L'avventura di K l'agrimensore e le complicatissime relazioni tra i personaggi, reali o evocati, prendono vita all'interno di una struttura modulare e omogenea, in cui anche i suoni e le luci assecondano bene la successione dei climax.
E quella fagocitante macchina burocratica che è rappresentata da questo romanzo incompiuto, che invece di rassicurare è fonte infinita di spaesamento, quella gabbia lusinghiera dove si ricevono complimenti per mansioni non svolte, quella costruzione impazzita che non contempla l'errore a meno che non lo si nomini in altra maniera, ritorna con bei momenti e belle idee che si ricordano con piacere, manifestate da segni forti, come la pioggia di fogli alla ricerca di una lettera, o lo spioncino da cui osservare il funzionario Klamm reso invece dalle braccia di Frida sollevate in quinta posizione.
Gli attori sono bravi, freschi di accademia, probabilmente, e ben piazzati sui fondamentali, la voce arriva chiara e distinta senza castigare le emozioni che pure trapelano nonostante il registro palesemente epico. Il che dovrebbe essere ovvio però non lo è. Insomma questo Das Schloss è un'operazione che merita, e soprattutto è un lavoro. Fatto da giovani professionisti che non hanno nulla di improvvisato, vivaddio.
Sono Gabriele Abis, Gabriele Anagni, Simone Borrelli, Laurence Mazzoni, Eleonora Pace, Paola Senatore, Flavio Francucci.
Il progetto, nato dalla collaborazione tra il Teatro Due diretto da Marco Lucchesi e l'Accademia d'arte drammatica Silvio D'Amico, mira infatti a "creare un ponte sempre più saldo tra la formazione artistica e l'inserimento nel mondo del lavoro", e ha visto in cartellone un totale di quattro spettacoli, da questa moderna rivisitazione di un classico a due nuove operazioni di drammaturgia autografa, da parte di Massimo Odierna che ha inaugurato con Un signore in vestaglia domani si sveglierà presto e di Giulio Maria Corso con Julien Zoluà, testo vincitore del premio Siae Nuova drammaturgia under 35, che chiude il ciclo e sarà in scena dal 21 al 25 gennaio.
Il terzo appuntamento è stato invece con un testo di Claire Dowie, scrittrice a attrice inglese pioniera dello stand up theatre, Assolutamente deliziose, diretto da Emiliano Russo, con Flaminia Cuzzoli e Ottavia Orticello.
Un affondo un po' generico, questa volta sì, contro pregiudizi e stereotipi ampiamente sfatati che a noi suona anacronistico, discorso trito che cavalca libertà sessuale, libertà di genere, maternità desiderate, non coltivate, omesse, passioni salutiste già superate, accantonate, messe in ridicolo. E purtroppo anche la messa in scena convince di meno, aggrappata a siparietti ripetitivi, che offrono poche possibilità di interpretazione e adesione.

PROGETTO CANTIERI CONTEMPORANEI
ROMA TEATRO DUE
CON IL PATROCINIO DELL'ACCADEMIA SILVIO D'AMICO