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C’è in “Sira”, l’ultimo spettacolo di Tino Caspanello, una scena in cui i due personaggi della piéce si affrontano fisicamente, lottano con vigore: è una scena teatralmente difficile e potente che, benché sia sapientemente preparata dal climax in cui si dispiega tutta l’azione drammatica, è capace

di sorprendere per autenticità e forza di verità. Da che cosa nasce la forza di questa scena e, conseguentemente, la forza di questo lavoro? Dal fatto che essa esplode proprio nel momento in cui ambedue i personaggi rivelano definitivamente il loro essere reciprocamente e contemporaneamente vittima e carnefice l’uno dell’altro. Lo scontro a quel punto diventa necessario e ciò che accade subito dopo è l’altrettanto necessario modificarsi della sostanza umana di quelle figure. Sembra di trovarsi davanti a una perfetta lezione di teatro, a un saggio da manuale di come debba funzionare una buona drammaturgia e certo non è il caso qui di fare citazioni, più o meno colte, a sostegno di queste affermazioni. Lo spettacolo si è visto nella sua forma definitiva domenica sorsa, 25 gennaio, a Messina, nella bellissima ex Chiesa di Santa Maria Alemanna, nel contesto della rassegna “Atto unico” organizzata da Auretta Sterrantino e Vincenzo Quadarella: in scena oltre allo stesso Caspanello (drammaturgo e attore) c’è Tino Calabrò, mentre la regia (pulita, lineare, senza sbavature patetiche) è curata da Cinzia Muscolino. Ad un incrocio qualunque di una qualunque città (lo spazio scenico è realizzato al centro della chiesa e il pubblico lo circonda ai quattro lati) un giovane killer (Calabrò) al suo primo omicidio attende nervosamente d’incontrare la vittima (Caspanello), la sua mano è stata armata dal suo stesso padre che, prima che l’azione cominci, si accerta telefonicamente che il giovane sia pronto e tutto proceda secondo i piani. Al verificarsi dell’incontro il progetto omicida salta immediatamente: la vittima, un professore di scuola divenuto in seguito un giornalista d’inchiesta, è ben consapevole che prima o poi, in conseguenza di una sua inchiesta (relativa ad una strage di mafia), quell’incontro si sarebbe verificato ed è pronto ad affrontare con coraggio il suo destino. E però scopre di conoscere quel ragazzo che lo attende per ucciderlo: è un suo ex alunno, intellettualmente dotato ma eccessivamente introverso e affatto motivato allo studio. Il padre di quel giovane è, con certezza, l’esecutore o il mandante della strage di mafia e il professore-giornalista sa bene che, prima o poi, gli avrebbero fatto pagare con la vita il coraggio dei suoi articoli. Il dialogo che scaturisce è serrato: il giovane killer, di fronte al suo ex professore, perde la determinazione omicida e, riconosciuto (il professore ne ricorda persino il soprannome: ‘U scuru), si pone nella condizione di poter essere denunciato o persino ammazzato; il professore-giornalista, dal canto suo, non può rovinare (né tantomeno uccidere) quel ragazzo per la cui educazione in passato si è tanto impegnato; nessuno dei due è insomma nella condizione che portare a termine quanto deve, ma nessuno dei due può o vuole nemmeno arretrare. La tensione drammatica aumenta fino al compiersi dello scontro fisico, simbolico certo, ma duro e decisivo di cui si è detto sopra. Nessuna morale della favola però, nessun moralismo d’accatto: soltanto puro teatro e lo schianto di due vite destinate a scontrarsi, anche loro malgrado. C’è in tutto ciò quanto basta per poter dire senza esitazioni che si tratta di uno spettacolo da vedere, ma c’è un altro elemento che proietta una luce ulteriore su questo lavoro e lo rende interessante: prima di iniziare lo spettacolo, Caspanello legge un lungo pezzo del Qoelet biblico. Non viene citata esplicitamente la fonte del brano, ma esso è abbastanza riconoscibile nella sua inconfondibile eco sapienziale. Perché questa scelta così impegnativa? È difficile ricostruire il percorso intellettuale e creativo che ha portato Caspanello a porre questo spettacolo all’ombra di una citazione/epigrafe così importante e misteriosa, ma appare evidente (e in questa prospettiva trovano posto possibili consonanze qoeletiche) che lo spettacolo, nel sovrapporsi e nel continuo intrecciarsi delle due prospettive di vittima e carnefice, di male compiuto e di male subito, riflette non soltanto sulla perfetta dinamica teatrale che lega i due personaggi, ma sullo stesso mistero dell’uomo che, nel più totale silenzio di Dio o nell’assenza di qualsiasi dimensione di senso, è capace di ogni abiezione e di ogni nobiltà.