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Con questa drammaturgia ospite, in scena al teatro della Corte dal 4 al 8 febbraio, la Stabile genovese pare ritornare, in un certo senso, alla sua grande tradizione del “teatro documento”, o “teatro civile” come più recentemente definito, che negli anni sessanta e settanta, con Ivo Chiesa e Luigi Squarzina, lo aveva visto produttore e protagonista di spettacoli come “Cinque giorni al porto”, “Il processo di Savona” oppure “8 Settembre”.
In questo nuovo testo del bravo Stefano Massini è la cronaca operaia e sindacale che si fa interprete dei flussi carsici della storia europea e mondiale, di quei fasci sismici che nel suo profondo, e senza ribaltamenti tellurici, ne hanno e ne stanno profondamente modificando gli assetti, i rapporti di forza e dunque i rapporti di classe.
La vicenda come noto è vera ed è accaduta in Francia pochi anni fa, ma Massini in qualche modo riesce a coglierne una valenza generale, ultra-geografica e politica, molto ideologica nel senso pieno di una tale indicazione che, nel suo voler interpretare il reale, informa di sé inevitabilmente, senza voler ricordare qui Edoardo Sanguineti, anche lo sguardo estetico e, nella sua pienezza, la prassi artistica.
Anche la declinazione interamente al femminile, che tra l'altro riporta alla mente importanti vertenze anche nostrane, assume qui un valore generale perché nel genere forse si focalizza in misura ancor più esplicita lo squilibrio generale di una società che, al riparo del suo essere liquida, ha rafforzato le diseguaglianze e, si sarebbe detto una volta, le “strutture di comando”.
Una fabbrica con duecento dipendenti tra impiegate e operaie cambia proprietà e il Consiglio di Fabbrica è chiamato a valutare le sue proposte. Niente delocalizzazioni, niente ristrutturazioni o licenziamenti, nessuna riduzione di salario, solo una modestissima riduzione per tutte e per ciascuna (7 minuti appunto su 15) della pausa giornaliera.
Il confronto che si apre, inaspettatamente aspro, smaschera da subito il lavoro ed il suo senso profondo. Non solo rapporto economico ma luogo intimo di confronto psicologico, talora eterodiretto quando l'ideologia, questa sì vincente, del datore di lavoro si fa egemone e permea la stessa idea di sé stessi. Le diverse figure storicamente e icasticamente determinate (le immigrate versus le italiane, le impiegate versus le operaie, le giovani versus le anziane) diventano così elementi singoli ed aspetti singolari di una stesso più profondo e comune confrontarsi.
Qui il drammaturgo, costruendo programmaticamente la sintassi scenica sui ritmi del famoso dramma giudiziario di Reginald Rose (“La parola ai giurati”), esplicita una scarto narrativo, tra parola ed evento, che rende la rappresentazione spiazzante e coinvolgente, aprendo la strada ai meccanismi nascosti che, anche attraverso il lavoro ma non solo, regolano identità e relazione.
Bianca la portavoce alle trattative, una Ottavia Piccolo capace di trasformare un apparente approccio naturalistico in scavo interiore, con il suo dubbio immediato smaschera il gioco nascosto dietro la fintamente innocua richiesta della proprietà (7 minuti vogliono dire 600 ore di lavoro regalato al mese), ma soprattutto porta coerentemente il discorso verso il suo baricentro negato: la dignità, nel lavoro e nella vita, e la possibilità di dire ad un certo punto “no” al ricatto.
Questo il centro della trama di incontri, confronti e scontri che si dipanano tra e nell'interiorità delle stesse protagoniste. L'esito è dunque meno importante della consapevolezza che faticosamente si affaccia sul proscenio, consapevolezza loro e nostra.
Una bella drammaturgia che mutua dalla tradizione e anche dalla moderna sintassi televisiva e cinematografica i ritmi del docu-film, riempiendolo però della presenza concreta dei corpi e delle voci dei protagonisti che della contingenza fanno il trampolino per la conoscenza.
La regia di Alessandro Gassmann, già protagonista negli anni scorsi della ripresa italiana del lavoro di Reginald Rose, ne asseconda con abilità i movimenti amplificandoli in una resa poli-segnica, che comincia ad essere caratteristica dei suoi lavori teatrali, in cui proiezioni video, giochi delle luci ed accorto uso delle sonorità musicali riproducono ed enfatizzano i diversi piani significativi della scrittura, politici e psicologici, intimi e di relazione, favorendone la piena resa attoriale.
Protagoniste intorno ad Ottavia Piccolo, dieci giovani attrici (Paola di Meglio, Silvia Piovan, Olga Rossi, Maiga Balkissa, Stefania Ugomari di Blas, Cecilia di Giuli, Eleonora Bolla, Vittoria Corallo, Arianna Ancarani, Stella Piccioni) ciascuna capace di autonome caratterizzazioni mimiche ma insieme attente ad un buon amalgama collettivo.
La scenografia, iper-realista come nelle corde del Gassmann regista, ma con citazioni surrealiste da Metropolis di Fritz Lang, è di Gianluca Amodio, i bei costumi di Lauretta Salvagnin, le musiche originali di Aldo e Pivio De Scalzi, le videografie di Marco Schiavoni mentre Marco Palmieri è il Light designer.
Una produzione Emilia Romagna Teatro, Teatro Stabile dell'Umbria, Teatro Stabile del Veneto, ha ricevuto ampi riconoscimenti in applausi e chiamate da un pubblico numeroso e da una città che il lavoro, la sua crisi ma anche la sua dignità conosce profondamente.

foto di Ombretta De Martini