Diamo a Cesare quel che è di Cesare! Imma Villa non sbaglia un colpo. Non avevamo dubbi, quindi, sull’interpretazione dell’attrice napoletana, anche attraverso questo testo firmato da Enzo Moscato. Ne avevamo sentito parlare da tempo, poiché lo spettacolo è in scena da quasi un mese,
con un buon riscontro da parte del pubblico e della critica. Ma come S. Agostino, dobbiamo vedere con i nostri occhi. E del resto l’emozione di ascoltare e vedere Imma Villa, di parlare con lei dopo lo spettacolo, di confrontarsi, seppur brevemente, è sempre meravigliosa. Parliamo di SCANNASURICE, testo moscatiano, ripreso dalla poesia registica di Carlo Cerciello, in scena per un mese, dal 22 gennaio al 22 febbraio, presso il Teatro Elicantropo di Napoli. Dopo aver annotato la bellezza di un altro testo moscatiano, SIGNURÌ, SIGNURÌ, che Cerciello ha “affidato” ai ragazzi del laboratorio permanente, i cosiddetti “Elicantropini”, come amano definirsi, il regista tenta di nuovo l’avvicinamento alla scrittura di Enzo Moscato. Frammentaria, altisonante, popolare insieme, musicale, anche questa volta la narratività della scrittura drammaturgica dell’autore napoletano, mescolata ad una vera e propria partitura narrativo- musicale, gioca sulla voce e sul ritmo, si mescola alla Storia, si “auto” eleva grazie all’importanza dell’ “epicità della narrazione”, come Moscato ama spesso definirla. In effetti ritroviamo elementi nati dalla mente fantasiosa dell’autore, ma anche e soprattutto il riferimento al terremoto dell’Ottanta, definito spartiacque sociale e culturale di un’intera epoca, fino ai ricordi che segnano da sempre il racconto di vita del nostro autore. Consigliamo una visione da un punto di vista “elevato”, cioè da poltrone poste a livelli più alti, vista la composizione particolare della platea del teatro Elicantropo: la scena, infatti, ravvicinata agli spettatori, in questo caso ha bisogno di un’osservazione mediamente elevata e distante. Questo perché la scenografia presenta un’inaspettata struttura edilizia che, se osservata dal basso verso l’alto, non rivela la stessa simbologia che possiamo scorgere, invece, attraverso una visione meno ravvicinata e da un punto di vista che va dall’alto verso il basso. Scannasurice è il soprannome del protagonista: un travestito che si ritrova a vivere in un edificio smembrato dal terremoto, in uno dei quartieri che alternativamente sembra rappresentare il vicolo, i Quartieri Spagnoli, la periferia. Ciò che ci sorprende è la scelta di una donna che interpreta a sua volta un travestito, scelta che forse rappresenterebbe un azzardo e una scommessa pericolosa se in scena non trovassimo Imma Villa. L’attrice si inerpica attraverso botole, nicchie maleodoranti, muri pieni di crepe; recita accovacciata, strisciando, sporcandosi di polvere, osservando dai buchi, dalle grate, scivolando simbolicamente attraverso i tubi. La didascalia iniziale, prevista dall’autore, parla di “stamberga”, ambiente unico che invece si trasforma sotto le mani di Cerciello. Guardando dall’alto e a distanza la sensazione, quindi, è quella di vedere topaie, nicchie mortuarie, l’effetto ottico ridimensiona anche l’attrice, e tutto è compresso in spazi angusti, scuri, putridi. La scelta di far recitare l’attrice mentre striscia attraverso cunicoli-stanze dal tetto ribassato, in un edificio-scena a tre piani, appare di una bellezza disarmante. I microfoni posti negli angoli più oscuri di queste nicchie, a tratti attivano l’effetto “eco” che rende drammatica, sinistra, demoniaca la voce del protagonista, come se le nicchie si allargassero in ampie volte nei cunicoli della città, attraverso la cosiddetta “Napoli sotterranea”. “Scannasurice”, nome-epiteto ( scanna sorci), veste una pelliccia meticcia, un manto lucido di sorcio di strada, di ratto di fogna: Imma Villa trattiene i suoi capelli in una retina, indossa una mutanda maschile con relativi “attributi”, il volto pittato, la parrucca, la gestualità perfettamente a metà tra il mascolino e il femmineo. Insomma, il travestito: proprio colui che identifichiamo nell’osservatore amaro, malinconico e decadente, frantumato, folle, nostalgico, delicato e violento insieme, che analizza l’umanità, noi stessi, sorci di un mondo che punisce, di un terremoto che azzera la Storia e le storie, che rende tutto effimero, che uccide, pulisce ma lascia a terra i morti. Quegli stessi morti umani ed animali che si mescolano nella tragedia, che vengono ritrovati, insieme, sotto le macerie, fisiche e metaforiche, mescolando immagini simboliche e squarci di ricordi reali. L’interpretazione dell’attrice è intensa, difficoltosa per la respirazione ed i movimenti, proprio perché il testo drammaturgico è caratterizzato da uno stile più narrativo che recitativo, un vero e proprio fiume in piena di parole. Ma soprattutto è dimostrazione di grande professionalità l’impatto vocale dell’attrice che regala al pubblico una cascata di parole e di frasi. Ogni singolo vocabolo, in lingua napoletana, viene accuratamente pronunciato dalla Villa, e soprattutto perfettamente integrato in un’alternanza di ritmi e di sonorità che rendono un testo ed uno spettacolo propriamente caratterizzato dalla parola, mai noioso ma profondamente affascinante. Il silenzio del pubblico è sconcertante: ci ritroviamo catapultati nei vicoli, che sono di certo quelli napoletani, identificabili solo grazie all’utilizzo della lingua, poiché, in realtà, l’atmosfera appare invece atemporale e a-geografica. L’invocazione alla luna, il dolore pronunciato dal protagonista, profondamente poetico, affascinano gli spettatori. Il testo, pubblicato nella raccolta ORFANI VELENI, debuttò nel 1982 con la stessa regia di Moscato, e poi nel 1984 con la regia di Annibale Ruccello: in entrambe le occasioni Moscato era anche interprete, secondo i dettami della Nuova Drammaturgia Napoletana e dei suoi autori-attori. Il testo, dunque, presenta due finali, che sembrano, in questo spettacolo, fondersi, e mai distinguersi, forse come è giusto che sia. La scena in cui Moscato prevede una benda bianca annodata davanti agli occhi del protagonista, che alterna narrazione e delirio, viene immaginata da Cerciello come “Altarino della Madonna”: insomma, una delle nicchie si accende di luci, come in un’edicola votiva, e Imma Villa emerge con il manto della Vergine, additando l’umanità, inveendo contro i “sorci”. Ricordiamo il particolare significato della Vergine e dei colori del suo manto nell’iconografia campana, che anche qui, come spesso in Ruccello, sembra alternare santità e demoniaca natura. Ed in effetti la soluzione a tutti i mali è il “curaro”: il veleno per topi, versato a piccole gocce nelle condutture, diventa sterminio e pulizia umana. L’elemento-simbolo ridondante è la casa, non solo intesa come edificio, ma come luogo simbolico dove depositare e conservare il passato, le storie e le vite. Il terremoto, il tempo che passa, frantumano le viscere di una città e del suo passato. Tradizione ed innovazione si contendono il ruolo, ed immancabile appare la “storia nella storia”, cioè il racconto della “bella 'mbriana”, lo spirito della casa, o degli spiriti nelle case che salvano dal crollo dell’edifico una giovane coppia di sposi e la loro piccola in fasce. Il passato viene scosso, estirpato, violentato: la Nuova Drammaturgia Napoletana lo denunciò subito. Ottima interpretazione di Imma Villa che non rivela mai esitazioni, mai indecisioni, che è un’ottima attrice fisica e soprattutto di parola, nel senso di attenzione meticoloso al testo, alle sue sonorità e ai suoi complessi ritmi, soprattutto quando è firmato da un autore come Moscato. Ottima regia, ottimo utilizzo delle luci. Atmosfere inquietanti, che alternano accoglienza, dolore, paura. Il pubblico partecipa con vere e prolungate emozioni: finalmente!
Foto Andrea Falasconi
SCANNASURICE
Scannasurice
di Enzo Moscato
regia Carlo Cerciello
aiuto regia Aniello Mallardo
con Imma Villa
assistenti regia Jack Hakim, Tonia Prisco
scene Roberto Crea
musiche originali Paolo Coletta
costumi Daniela Ciancio
direttore tecnico Marco Perrella
foto di scena Andrea Falasconi