Poeta nichilista si definiva il giovane Friedrich Durrenmatt allora studente a Zurigo, scrive nel foglio di sala il regista Marco Sciaccaluga che sembra costruire attorno a quella iniziale affermazione-definizione la sua interpretazione drammaturgica di questa commedia del 1952
che in qualche modo anticipa e prepara i grandi lavori degli anni successivi.
Ma lo fa, credo, proprio per smentirla perché in Durrenmatt la vita che si riflette sulla scena è semmai irrazionale, dominata dal caso, non organizzabile in alcun progetto, sia questo politico, religioso o estetico, ma certamente non è “nulla”.
La messa in scena ci mostra dunque, e piuttosto, un grande iconoclasta, impegnato a smascherare le illusioni di uomini incapaci di strutturare la realtà ma paradossalmente fiducioso della vita, e soprattutto mai moralista, quasi a voler riscattare le sconfitte con la percezione della loro inevitabilità.
Un moto perpetuo all'insegna di un grottesco che sconfina talora nel comico, capace, si direbbe, di dare infine un senso al non senso metafisico della esistenza, in scena e fuori dalla scena.
È un dramma aperto questo, sia nella struttura narrativa che alterna con sapienza tragedia ed epos restando sempre attenta a smascherare il proprio gioco teatrale, sia nella sintassi da romanzo giallo ribaltata però nella iniziale rivelazione dei colpevoli e delle vittime, una drammaturgia che Sciaccaluga riscrive nelle tonalità di un vaudeville fatto di equivoci, sparizioni, intrighi e soprattutto tradimenti amorosi e sostenuto da movimenti scenici costruiti con sapienza sul “colpo di scena”.
Dramma dunque politico e sentimentale insieme, peripezia di cinque protagonisti, più che personaggi maschere, icastico inveramento, nelle forme del secolo breve e insanguinato che ci ha preceduto, delle forze in campo nella contesa dell'esistere contemporaneo, la legge religiosa, l'istanza rivoluzionaria, l'idealista cavaliere del sentimento puro e della verità ed il potere. Accanto a loro Anastasia, figlia della contingenza e dell'occasione, espressione della volontà di vivere, comunque e per il solo piacere di farlo, quasi materializzazione di una natura che continua a farsi gli affari propri a dispetto di ogni cultura e di ogni nostra “ideologia”.
Moriranno tutti in un gioco di scatole cinesi, annichilendosi l'uno con l'altro, salvo il Primo Ministro perché alla fine in quel campo di battaglia che è la vita gli individui soccombono e trionfano le pulsioni indistinte della folla e del potere che se ne alimenta. Conclusione apparentemente amara e senza speranza ma che paradossalmente dimostra la superiorità dei primi, di questi cavalieri della Mancha che sembrano avere il loro riscatto, il loro premio nel solo fatto di “averci provato” al di là e nonostante i torti, le falle e l'inutilità del loro agire.
Che sia speranza o illusione, comunque c'è evidente nella loro peripezia la forza della risata e dell'allegria, con caratteri di straordinaria modernità quasi ad anticipare i temi e i tempi di una dissoluzione della società sotto i nostri occhi. Durenmatt non insegna come Brecht, che non amava, ma certamente “suggerisce” con i modi della drammaturgia.
Uno spettacolo indubbiamente interessante che Marco Sciaccaluga guida, con mano leggera ma con evidente convinzione, attraverso le trappole di un testo programmaticamente contraddittorio ed enigmatico, cui la traduzione di Eugenio Bernardi ha conferito un tono straordinariamente consueto anche nei più arditi spunti retorici.
In scena Ugo Dighero (Florestan Mississippi procuratore fautore della legge mosaica) e Andrea Di Casa (Frédéric René Saint-Claude il rivoluzionario) sodali di un tempo e indissolubilmente legati come l'immagine al suo specchio, e poi Roberto Serpi (Conte Bodo von Ubelohe - Zabersee l'dealista) e Roberto Alinghieri (il ministro); tutti a ruotare attorno a Alice Arcuri (Anastasia). Bravi e capaci di recepire, e far percepire al pubblico, nella recitazione quella sorta di distacco partecipato che caratterizza il rapporto tra il drammaturgo svizzero e i suoi personaggi.
Inoltre Rachele Canella (la cameriera) a suo agio e i giovani ma già esperti Davide Mancini, Davide Mazzella, Valerio Puppo (tre uomini) e Nicolò Giacalone (il professor Uberhuber).
Le scene, belle e cangianti, e i costumi sono di Catherine Rankl. Belle anche le musiche di Andrea Nicolini, circondate e quasi partorite dalla nona di Beethoven, e le luci del “solito” Sandro Sussi.
In cartellone tra le produzioni “di casa” dal 10 febbraio al primo marzo al teatro Duse, credo lo spettacolo confermerà l'ottima accoglienza del pubblico dell'esordio, purtroppo ieri 11 febbraio rattristato dalla notizia della morte improvvisa di Rachele Ghersi attrice e soprattutto maestra della scuola di recitazione dello Stabile genovese.
Il matrimonio del signor Mississippi
- Scritto da Maria Dolores Pesce
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