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Si chiude con questa drammaturgia, al teatro Duse dal 16 al 23 dicembre, il ciclo di “produzioni speciali” che lo Stabile di Genova ha dedicato, in questo aspro esordio di inverno, alla drammaturgia contemporanea. Lavoro dello svedese Henning Mankell, forse più noto in Italia per i romanzi del commissario Wallander, è presentato nella versione italiana di Graziella Perin e per la regia interessante di Filippo Dini, collaborato da Carlo Orlando, e si avvale, come sempre in tutte le cinque opere del ciclo, di Guido Fiorato per scena e costumi e di Sandro Sussi per le luci. In scena Federico Vanni, il padre, e Ilaria Amadasi, la figlia, che danno una buona prova delle loro capacità anche scontando una certa acerba rigidità mimica forse figlia della indubbia durezza del testo. Storia di immigrazione clandestina nella 'fortezza europa' ne travalica e presto ne travolge ogni coordinata politica o semplicemente sociologica per aprirsi ad un sguardo impietoso sulla condizione umana oltre la storia. Indubbiamente sensibile e padrone della migliore tradizione drammaturgica scandinava, quella per internderci che parte da Ibsen e Strindberg e prosegue con il più vicino Bergman, Mankell utilizza una tragica, e purtroppo assai comune, fabula contemporanea non tanto come pretesto quanto come grimaldello per indagare i meccanismi più profondi dell'essere umano nei nostri giorni. Padre e figlia, senza nome quasi ad indicare la loro matrice metaforica, sfuggiti da un non meglio determinato paese del terzo mondo, che ancora li perseguita nei loro incubi di oppressione e tortura, in un viaggio disperato durante il quale la madre, ambiguamente come in un enigma che si ripropone continuamente, ha perso la vita, si ritrovano sepolti e clandestini in uno squallido appartamento di una grande città. Aspettano che chi li ha traghettati fornisca loro i documenti ed una nuova identità, nel mentre quella loro passata è ormai cancellata e pericolosa. Aspettano, ma i giorni passano e sempre più appare chiaro che nessuno arriverà. È da questo contesto narrativo che si innesca l'indagine profonda della drammaturgia che analizza ed esplicita il progressivo traguardare della mente oltre ogni confine e limite, al di là anche dei tabù più intimi, per mostrarci nella loro nudità il rapporto tra un padre ed una figlia, tra un uomo e una donna, rapporto che si dibatte inutilmente tra la solidarietà o la tacita condivisione e la contrapposizione irresolubile. La disperazione che nasce dallo sradicamento culturale e dalla conseguente perdita di una identità stabile non appare però, in questa drammaturgia, la causa di un tale angoscioso slittamento, ma solo l'occasione di un processo più profondo che affonda le sue radici nelle pulsioni più nascoste, per così dire nei demoni dell'animo. Un linguaggio duro, che si spinge a volte fino alla violenza, accompagna quest'opera di denudamento dell'intimità umana, che il testo e la trascrizione scenica rendono esplicita, fino alla finale pulsione di morte che si intreccia con il disperato grido di libertà della figlia. È una drammaturgia cupa e notturna, quasi claustrofobica, e per questo talora inquietante e angosciante fino al limite del rifiuto, laddove la brutalità della tentata violenza sessuale del padre sulla figlia sembra sul punto di travolgere ogni possibilità ed ogni volontà di controllo e organizzazione del pensiero cosciente. Ma proprio per questo è una drammaturgia importante che riporta l'attenzione, un tempo molto più diffusa, delle nostre scene sulla drammaturgia nordica che sembra non aver mai cessato di indagare l'essenza profonda della psiche umana. Concorde l'accoglienza del pubblico presente.

Foto di Patrizia Lanna