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Vito Mancuso e Pino Petruzzelli affrontano il nodo del pensiero di Dietrich Bonhoeffer, teologo e pastore della Chiesa Luterana tedesca giustiziato dai nazisti per il suo coinvolgimento nella congiura contro Hitler, ciascuno dalla sua specifica angolazione ma con un amalgama sorprendente che ha il centro nelle suggestioni della sua scrittura, profonda ma straordinariamente “semplice”, in particolare a partire dal lungo epistolario con un suo amico al fronte, pubblicato fortunosamente solo dopo la fine della guerra e tradotto in italiano addirittura ancora molto successivamente (nel 1968).
Ne nasce uno spettacolo doppio, per una sola straordinaria serata il 3 marzo, ma doppio come uno specchio in cui l’oggetto e la sua immagine sono la conseguenza di un unico processo cognitivo e di comunicazione insieme.
Prima il teologo, solo in poltrona sul palcoscenico vuoto, sembra analizzare le suggestioni che promanano da quelle parole come se riflettesse con sé stesso, ma accompagnando quelle stesse riflessioni con la nostra presenza, apparentemente muta, facendocene partecipi fino al più intimo anche commosso coinvolgimento.
Poi, ma senza soluzione di continuità emotiva, l’attore riscrive drammaturgicamente le suggestioni degli ultimi pensieri di Bonhoeffer nel giorno della sua esecuzione, stupida e inutile vendetta al tramonto di una guerra sanguinosamente, e per noi fortunatamente, perduta. Lo fa quasi sovrapponendo, e credo non a caso, alla figura militante contemporanea l’eco di quel primigenio sacrificio in croce (“Signore allontana da me questo calice” ripete) che dà il via a tanta parte della Storia, della nostra storia e della sua riflessione.
Il nodo è però unico, a mio parere, ed è quello del senso della incarnazione cristiana, nodo forse ancora sospeso e la cui “sospensione” riecheggiava già nelle riflessioni del Testori di Marco Martinelli e Ermanna Montanari visto a Ravenna (“A te come te”) e recensito qualche tempo fa su queste pagine.
La “incarnazione” di Cristo appare dunque per Mancuso e, con le modalità sue proprie anche per Petruzzelli, una sorta di rivendicazione da parte del Creatore del creato ed insieme, contemporaneamente ed indissolubilmente, la rivendicazione da parte del creato e delle creature, al suo culmine dell’umanità, del loro creatore.
L’aver pervicacemente scisso e separato, Dio dal mondo e dalla natura e così l’anima dal corpo, appare dunque un consapevole atto e processo di de-responsabilizzazione rispetto al bene e al male, atto e processo che nella storia ha aperto e apre le porte soprattutto al male, come dimostra lo stupore e anche la rabbia del pensatore tedesco rispetto alle modalità della crescita e della diffusione del nazismo nella sua patria, cosa con cui la coscienza tedesca forse non ha fatto pienamente i conti, lo ricordava anche Fassbinder.
Ricondurre ad unità, l’anima con il corpo e la natura con Dio come nell’antica religione greca e romana allontanate per Mancuso fin nel loro ricordo, facendone l’una dell’altro la matrice (madre) condivisa e inseparabile, porta al contrario alla consapevolezza e la consapevolezza conduce infine alla responsabilità, la responsabilità verso il mondo e dunque verso il bene ed il male che dall’atto della creazione lo impastano, bene e male dunque non esterni all’uomo ma talmente interni a lui da essere alla fine il frutto ineludibile delle sue azioni.
Consapevolezza e responsabilità come segno del riconoscimento della natura, del corpo che ne è parte e della mente che ne è iscritta, come recupero infine dell’umanità dell’uomo nella divinità della natura (“non abbandonate la terra” ricorda il nietzchiano Zaratustra nelle parole di Vito Mancuso”), come recupero dunque della vita e della sua gioiosa potenza, anche nel buio del dolore oltre le litanie e le vuote formule.
Alla fine uno spettacolo intenso, vero e autentico teatro, spigoloso, se vogliamo, ma capace di richiamare un pubblico che ha esaurito, platea e galleria come non si vedeva da anni, il teatro Duse di Genova che ospiterà di seguito “L’uomo che raccoglieva bottiglie” di Pino Petruzzelli.
Una serata particolare, che fa onore allo Stabile di Genova, e a cui il pubblico ha tributato applausi ripetuti ed entusiasti.