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Come sempre è nella totale semplicità che si annida la complessità più feconda e interessante di uno spettacolo: potrebbe sintetizzarsi così un efficace giudizio critico rivolto a “Totò e Vicè”, il lavoro di Enzo Vetrano e Stefano Randisi, costruito sul celebre testo di Franco Scaldati, che, dopo aver

felicemente debuttato e girato l’Italia nella scorsa stagione, s’è visto ancora l’1 marzo scorso a Catania nello spazio ZO, nel contesto della rassegna “Altre scene”. Uno spettacolo che possiede quasi strutturalmente tutti i numeri per piacere al pubblico e convincere la critica: non si avvita mai su se stesso, dà consapevolmente attenzione al suono delle singole parole e alla sonorità complessiva del testo drammaturgico, costruisce lo straniamento sull’immagine pur concretissima di due inseparabili clochard palermitani, lascia respirare nello spazio la poesia surreale dell’intero dialogo (le domande dell’uno restano sospese, senza risposta, quasi in poeticissima attesa delle domande dell’altro e poi il sovrapporsi senza elidersi reciprocamente dei piani della realtà, del sogno, della morte) , si dispiega attraverso una perfetta, affettuosa corresponsione dei due personaggi determinata, ovviamente, dal grande e reciproco affiatamento che questi due artisti coltivano da anni. Uno spettacolo di altissimo livello non c’è dubbio, ma forse non occorre tesserne lodi ulteriori, non occorre sottolineare ancora le ascendenze beckettiane, quanto provare a riflettere su un aspetto di esso su cui forse ci si dovrebbe interrogare maggiormente: ovvero la possibilità che un testo del grande Scaldati (ce ne sono ancora moltissimi da rileggere o da scoprire) possa ancora essere allestito autonomamente dal suo autore. Basta aver visto anche una sola volta Scaldati in scena per capire la grande problematicità di questo aspetto: la voce cavernosa dell’artista palermitano (drammaturgo, attore, regista), la sua lingua scabra, immune da qualsiasi  artificio retorico, pluristratificata, quasi scavata nel vissuto millenario della gente dei quartieri di Palermo, i suoi tempi perfetti, la straordinaria capacità di far letteralmente cantare il silenzio, la sua innocenza; tutti elementi che lo rendevano davvero inimitabile e legavano i suoi testi alla sua presenza in scena. Appare quindi del tutto pertinente la domanda circa la possibilità reale di mettere in scena un testo di questo autore, scomparso nel giugno del 2013. Una strada possibile e concreta in questo senso la indicano Vetrano e Randisi, appunto in questo Totò e Vicè: una strada che implica una reale consapevolezza di tale difficoltà, un rispetto assoluto di questo background emotivo, teatrale e intellettuale ma, allo stesso tempo, la capacità di giocare la partita della nuova messinscena in uno spazio veramente altro rispetto a quello di realizzato da Scaldati, la capacità di porsi sul piano dell’emulazione creativa piuttosto che su quello dell’imitazione. Vetrano e Randisi sanno, quasi sempre, liberarsi del fantasma di Scaldati e si volgono piuttosto ad una costruzione meno claustrofobica, più ariosa e leggera della teatralità che da quel testo emana. Forse perché anche loro sono palermitani e quindi capaci di leggere fino in fondo l’ampiezza connotativa della lingua scaldatiana e forse perché, vivendo e lavorando da tanto tempo fuori dall’isola, hanno saputo costruire un autonomo e importante linguaggio artistico che dà loro autorevolezza, distanza e verità d’ interpretazione anche di fronte al testo di un poeta straordinario e ancora abbondantemente presente nella memoria di molto pubblico.