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L’esperienza umana che racconta questo spettacolo, si proietta, poi, nella realtà della platea. Il pubblico che accorre numeroso alla prima napoletana del prodotto artistico che è stato insignito del premio IN-BOX 2014, con un afflusso cospicuo di giovani critici del web che operano a Napoli, è indicativo. Platea gremita e nessun posto libero per lo spettacolo L’UOMO NEL DILUVIO, in scena dal 17 al 19 marzo, presso il Piccolo Bellini di Napoli. Nella produzione e diffusione coinvolti anche Blue Desk, Interno5 e la Rete dei Piccoli Teatri Metropolitani di Napoli. Incuriositi dall’arca appesa sul palcoscenico, ulteriore sfondo cinematografico, ci accingiamo alla visione.
Interprete di se stesso, artista, padre, compagno e uomo italiano è Valerio Malorni, ideatore del testo e della regia insieme a Simone Amendola.  Il percorso di Malorni rivolge spesso l’attenzione ai testi dedicati ai bambini e agli effetti del teatro sui più piccoli. La scintilla che ispira anche questo lavoro è la visione dell’immagine di un libro in cui Mosè chiede alla moglie titubante, di partire e di portare con sé qualcosa di caro che lei desidera salvare dal diluvio. Ed è proprio il diluvio metaforico il protagonista principale di questo spettacolo, perché, come riporta il titolo, non si parla dell’uomo DEL diluvio, bensì di colui che NEL diluvio vive, soffoca, annaspa. L’Italia contemporanea spinge alla partenza. Il concetto di emigrazione, di cui si parlava negli anni ’70 e ’80, ritorna ma con l’accezione di sradicamento culturale. Dopo decenni di radicata vita italiana, i nostri ricominciano a partire. Oggi la riflessione non si sofferma  su ciò che si lascia e ciò che si trova, ma sul concetto del lasciare e dello scoprire se stessi in altri luoghi. La dignità artistica di questo protagonista emerge chiaramente solo dopo la sua prima messinscena in Germania, non per la mancanza di valore artistico, ma per la differenza di “comprensione” culturale da parte dei due Paesi.  Quello che colpisce subito è la costruzione dell’intero spettacolo, che inizia come tale, quindi come teatralizzazione di un racconto personale, ma che in realtà comincia dalla fine per poi chiudersi in un cerchio perfetto. Tutto ciò che sta in mezzo, tra lo spettacolo vero e proprio e il racconto della messinscena, è fondamentale. Si tratta della vita di un artista italiano, un giovane che, come tanti altri e in altri ambiti lavorativi, affronta la dura realtà della partenza per esigenze economiche. Gli amici che lo salutano si chiedono come farà, e soprattutto cosa ne sarà di lui che sognava di fare il teatro in Italia,  e che invece si ritroverà a dover guadagnare all’Estero, dedicandosi ad altri mestieri e ad occupazioni di fortuna. La decisione da seguire, dentro questo diluvio fatto di lacrime amare e di speranza insieme, è quella della partenza. In Italia restano moglie e figlia, come la consorte del biblico personaggio, titubante e dolorosa nel dover abbandonare tutto. La prima parte dello spettacolo vede l’attore spogliarsi e recitare indossando solo indumenti intimi: noi siamo spettatori italiani, in Italia, dello stesso racconto che Malorni mette in scena, per caso, in Germania, presso l’Istituto di Cultura Italiana di Berlino. Perché la Germania? Forse lì, o in qualsiasi posto che non sia l’Italia, è possibile lavorare, è possibile raccontare e raccontarsi? Sradicamento linguistico, meteorologico, affettivo, ma attenzione culturale. Questo è il paradosso.
Il giovane attore si ritrova a lavorare in una cucina di un ristorante turco, e le immagini del viaggio e del percorso che lo conducono dall’Italia alla Germania vengono proiettate sull’arca di cartone. Luoghi, insegne, metro, vie, il luogo di approdo di questo Ulisse contemporaneo potrebbe essere qualunque. E se da un lato il viaggio omerico presume un ritorno, dall’altro l’imbarcazione è biblico-casalinga, un’ arca di cartone, una vasca da bagno, in quella casa che ha lasciato in Italia, utero metaforico in cui l’acqua diventa stagnante, dove le lacrime si uniscono alla decisione della partenza. La Germania è, invece, “doccia”, nel senso di acqua che scorre dall’alto, che produce vigore, che rigenera e che dà una speranza al giovane artista. Bisogna davvero partire per riscoprirsi? Bisogna davvero lasciare ciò che si ama per convincersi che ciò che si fa è giusto? Bisogna cambiare strada per tornare a quella vecchia, considerandola esatta?
Lo spettacolo porta in scena momenti di ironia velati da una continua e dolorosa malinconia. La sensazione mostrata agli spettatori è quella di una costante sorpresa nei confronti di ciò che dovrebbe essere normale e che, invece, abbiamo dimenticato. Se un pubblico straniero comprende il racconto e il dolore di un italiano, se un critico teatrale tedesco riesce a descrivere la poesia di questo racconto, allora la dignità, e soprattutto la ricerca di un senso, non sono perduti. L’interazione con il pubblico è costante, creando un gioco meta teatrale reale, che si svolge mentre osserviamo lo spettacolo, ed  uno immaginario,  mentre invece ascoltiamo il racconto dello stesso spettacolo svoltosi in Germania. Una narrazione concentrica attraverso diversi piani scenici e soprattutto temporali, lungo i quali l’attore scende in platea e chiede ad una spettatrice di salire sul palco. Idea geniale quella di far leggere alla donna il testo della recensione, dimostrando che nessuno di noi, o pochi, possano comprendere la lingua straniera e il senso dell’emozione del critico teatrale tedesco, colui che, a sua volta, insieme agli spettatori berlinesi, non aveva capito nulla delle parole del giovane attore italiano, ma  alla fine aveva percepito a fondo il dolore e la dignità di quest’artista. Il linguaggio utilizzato da Malorni sembra essere un “finto” teatrale, o meglio appare come un racconto rivolto ad amici, attraverso un italiano “parlato” tipico del quotidiano, intervallando le scene narrative a quelle drammaturgiche vere e proprie. Se all’inizio della performance ci sembra di assistere alla visione di alcune scene di uno spettacolo, queste in un secondo momento vengono “smembrate” dalle indicazioni dell’attore, che descrive le sue paure e le sue scelte in riferimento al pubblico tedesco: ci spiega, quindi, gli escamotage utilizzati per recitare a Berlino, davanti ad un pubblico straniero che conosce gli Italiani solo attraverso luoghi comuni. Non ci troviamo davanti ad un trattato sull’emigrazione contemporanea, bensì osserviamo come il concetto di sradicamento, non dettato da eventi violenti come le guerre, è oggi generato dall’appiattimento e dalla morte di un intero Paese. Il nostro. Ciò che addolora non è, quindi, la partenza verso un luogo straniero, ma è l’allontanamento da noi stessi a causa di una cultura d’origine che non comprende più le nostre parole. Il tema biblico si ripete nei travestimenti da Messia, con tanto di tonaca e cappuccio, immagine del portatore della speranza futura, e nell’accasciarsi dell’attore in mutande al centro del palcoscenico, ricordando l’immagine del Gesù crocifisso. È necessario parlare, quindi, di dignità, umana ed artistica. Soprattutto quando l’attore, a fine spettacolo, ferma gli applausi e rimprovera una giovane spettatrice in prima fila: “non sono nessuno per potermi permettere di bloccare il mio spettacolo, ma adesso che è finito posso dire la mia”. Le foto con flash ed i cellulari accesi durante uno spettacolo teatrale sono l’esempio più lampante della perdita di dignità culturale del pubblico italiano. E questa non era finzione, né racconto.

L’UOMO NEL DILUVIO
Piccolo Teatro Bellini Napoli
17-19 marzo 2015
Con Valerio Malorni
Idea, testo e regia
Simone Amendola
Valerio Malorni
Costumi Maria Linda Fusella
Organizzazione Floriana Pinto Longo
Una produzione Blue Desk
Residenza produttiva Carrozzerie n.o.t.
Con il patrocinio di Roma Capitale
Con la collaborazione di Zètema