Si dirà che con la morte di Judith Malina, spentasi a New York il 10 aprile scorso, si è definitivamente consumata e chiusa un'esperienza “rivoluzionaria” o addirittura “anarchica” ed “eversiva” del teatro contemporaneo, quasi che, in fondo, si mascherasse con difficoltà la voglia inconfessata di liberarsi finalmente, forse anche da parte di chi ne sembrava più vicino, di una esperienza che con coerenza e testardaggine ci ha messo senza sosta di fronte alle nostre colpe e alle nostre mancanze, alle colpe e alle mancanze di una Società incapace di liberarsi dalle sue oppressioni.
Lo faceva nella maniera più eversiva possibile, a partire dalle nostre coscienze, dalle nostre identità, mettendole profondamente in tensione, esteticamente ed artisticamente, fino a scontrarsi con i limiti e le incoerenze di una visione del mondo, una visione del mondo che rende noi ed il mondo stesso ingiusti e infelici, talmente introiettata da diventare “naturale” e indiscutibile.
Ma penso, e spero, che così non sarà e che la forza innovativa attivata da Judith, Julian Beck ed il Living Theatre continuerà a scorrere, magari per un po’ come un fiume carsico, nelle vene del teatro perché, come le migliori esperienze di ricerca del 900’, ha dalla sua l’autenticità e la sincerità di un rapporto rinnovato con le radici dell’espressione artistica, laddove queste incontrano gli strati più profondi e condivisi della nostra coscienza.
Non è necessario ricordare le singole tappe di una esperienza che parte dal 1947, insieme a Julian Beck fino al 1985 (chi non ha ben fermo nella mente ad esempio “Paradise Now”), e poi insieme ad altri e fino praticamente a ieri, in un percorso diversificato per testi e luoghi, integrato dalle più varie collaborazioni e anche da notissime partecipazioni cinematografiche (“La famiglia Adams”, “Un pomeriggio di un giorno da cani”, ecc.), queste ultime promosse anche dalla stringente necessità di reperire fondi per il teatro, sempre perseguitato da una cronica mancanza di denaro fino alla chiusura definitiva nei primi anni del 2000.
Un teatro necessitato, nato sulla spinta di un desiderio “bruciante” di espressione mediata e articolata, con una spontaneità strutturata da un lungo studio delle forme e delle modalità più intime di comunicazione e conoscenza, che non poteva che scontrarsi con le forze sclerotizzanti di una Società per sua essenza oppressiva e disumanizzante.
Nacque un teatro di liberazione, un teatro coerente e sempre diverso, che ha combattuto la violenza dei rapporti di classe, la violenza delle istituzioni chiuse come eserciti, carceri e manicomi, la violenza dei rapporti razziali e la violenza di genere e dei rapporti tra i sessi. E i tutori, istituzionali o diffusi, di tale ordine hanno reagito anche con quella stessa violenza infliggendo carcere ed esilio ed infine cercando di espellere definitivamente, attraverso il silenzio e l’oblio, tale esperienza.
Un percorso quello del Living e di Judith che credo comunque rimarrà. Anche per questi ultimi anni, segnati da insuperabili difficoltà e durante i quali Judith Malina ha vissuto, soffrendo una sorta di nuovo esilio ed abbandono, in una casa di riposo per attori in quell’America che ostinatamente non ha voluto riconoscerla come sua, anche questi ultimi anni, dicevo, sono stati caratterizzati da un ultimo tentativo teatrale, incentrato sulla condizione degli anziani e sulla violenza che ne impone l’inutilità sociale e produttiva e non ne riconosce più la “saggezza”. Judith Malina è morta prima di realizzare questo suo ultimo progetto.
Italia ed Europa sono stati molto importanti per Judith Malina, che in Europa era nata nel 1926, e per il Living, una Europa che li ha accolti durante l’esilio riconoscendone la forza e la valenza estetica e soprattutto una Europa alle cui esperienze di avanguardia si ispirava consapevolmente, nascendo il Living dalla scuola newyorkese di Erwin Piscator.
E in Italia, precisamente a Rocchetta Ligure dove Judith Malina ed il Living senza più Julian Beck ma con Hanon Reznikov aveva trovato allora la sua provvisoria residenza, ebbi la fortuna di incontrarla. Dall’incontro nacque una lunga intervista, rintracciabile oggi su “Parol, quaderni d’arte e di epistemologia- on line”.
Di tale intervista vorrei solo ricordare una affermazione di Judith Malina perché, penso, riassuma con efficacia il senso di una esperienza così forte:
“L’idea che è possibile creare una società anarchica, pacifista, umanistica, vegetariana, femminista, è possibile perché nella realtà non ci sono ostacoli effettivi, naturali, alla creazione di questa società. Generalmente, invece, la gente ha il dubbio, ha interiorizzato il dubbio che questa nuova società sia effettivamente irrealizzabile, e questo dubbio rappresenta il vero ostacolo verso il cambiamento. L’ostacolo è il cinismo, il finto realismo che fa pensare che sia impossibile cambiare verso una società più giusta. E così ogni testo che può aiutare a capire, mostrandolo, che questo mondo può in effetti essere, che queste idee non sono utopistiche, che può dunque aprire nel pubblico e nella gente la speranza che un cambiamento è possibile, anzi è necessario, questi testi ci fanno bruciare.”
La battaglia e la “ricerca della felicità” continua.