“A Mosca, a Mosca” sognavano tre sorelle prigioniere della provincia russa di oltre un secolo fa, quasi ad indicare che ancora la ricerca della felicità aveva un obbiettivo, un luogo e quindi una possibilità. Nella contemporaneità Olga, Irina e Mascha, sorelle tedesche altrettanto prigioniere nella fatiscente dimora delle loro inespresse e inesprimibili possibilità, non riescono e possono più invocarlo quel luogo, fantastico o forse psicologico, e non conoscendolo o riconoscendolo più ne possono ripetere solo la soffocante malinconia.
La giovane drammaturga tedesca Rebekka Kricheldorf, con questo suo lavoro non riscrive ma sostanzialmente rivive il Checov di “Le tre Sorelle”, o meglio, come acutamente scrive il foglio di sala, “ne incrocia lo sguardo”, in una scrittura e tessitura scenica che quanto più è, come dire, calco riconoscibile di quella narrazione, tanto più apre ed esplora nuove vie di significazione.
Con una lingua pulita e secca, insieme poetica e razionale, cui la traduzione di Alessandra Griffoni nulla toglie
in efficacia, la drammaturga affastella intorno a questo suo incrociare lo sguardo dello scrittore russo, una serie quasi esponenziale di suggestioni, l’una suggerita dall’altra, moltiplicando nello spettatore gli “incroci”, appunto, e dunque i piani di significazione, così aprendone la percezione non solo sul significare metafisico degli eventi ma anche su quello esistenziale, nato oltre il tempo ma profondamente legato alle contemporanee contingenze.
In questo compleanno, ripetuto tre volte ma strutturalmente sempre eguale a sé stesso convergono così, agevolmente e quasi spontaneamente, la scoperta del “nulla che c’è” del teatro Beckettiano, le articolazione dell’autorità e della sua riproducibilità indagate da Freud nei rapporti familiari, man mano resi inattivi e privi di legittimità per nascondere in fondo l’incapacità ad amarsi e quindi ad accettare la sconfitta “insieme”, il liquefarsi della Società, indagato da Baumann, non tanto perché priva di valori ma perché priva di fonti di valore in quanto il potere si allontana sempre di più e si cela, moltiplicando però la sua efficacia e dunque la sua ferocia.
Il compleanno è quello di Irina, la più giovane, incapace di superare e mascherare la sua ininfluenza, ma capace come una pietra di paragone o una cartina al tornasole di smascherare le ipocrisie e le nevrosi che abitano Olga e Mascha, apparentemente realizzate nel lavoro e nel matrimonio, ed infine quelle di Andrej il fratello intellettuale destinato, come l’intellighenzia di oggi, sembra dirci l’autrice, a successi neanche principiati.
Un fallimento che ha un solo argine apparente, la sua narrazione, talora dolente e talora rabbiosa, all’interno di quel circuito esclusivo in una villa dolorosa e fatiscente, che esclude infine, quasi psicoticamente, anche le più timide aperture verso un mondo che scorre comunque oltre quel giardino, aperture apparenti che, anch’esse portatrici di fallimento, serviranno solo a confermare e giustificare l’irriducibile chiusura.
Una drammaturgia interessante nella sua complessità, in un certo senso debitrice anche allo sguardo acuto di una Elfriede Jelinek capace di penetrare nel non detto delle relazioni familiari, oppure alla rabbia sorda ed ironica di un Peter Handke e di un Thomas Bernhard piuttosto che la contemporanea e più apertamente rabbiosa drammaturgia anglosassone.
Una narrazione “nordica” e periferica capace così di portarci al cuore dell’Europa ferita di oggi, incapace di ritrovarsi e, per questo forse, una narrazione un po’ troppo indulgente con sé stessa, quasi rinunciataria di fronte all’abisso che apre e che sembra guardare con una certa indifferenza e freddezza. Un guardare il nulla che c’è, un guardare l’abisso senza, non dico indignarsi, ma anche senza spaventarsi, in cui l’ironia e talora la comicità si sovrappone e cauterizza quasi le ferite aperte da tanto teatro dell’area tedesca.
Roberto Rustioni, che cura la regia e la messa in scena, asseconda con sapienza questo sguardo limpido e tagliente, attenuando l’essenza claustrofobica della narrazione con efficaci aperture nei movimenti scenici, che si dilatano oltre il proscenio, e nelle scenografie integrate dai video che allungano il nostro sguardo su quegli insuperabili giardini, più barriere che sentieri.
In scena Eva Cambiale, Carolina Cametti, Silvia d’Amico, Gabriele Portighese, Federica Santoro e lo stesso Roberto Rustioni, bravi nel mescolare suggestioni cecoviane con il secco procedere di una narrazione dai toni quasi post-contemporanei (quella Villa Dolorosa si mostra forse come un nostro futuribile alla Philip K. Dick partorito dal romanzo mai scritto di Andrej piuttosto che come una suggestione del passato).
Gabriele Gerets Albanese è l’aiuto regista, mentre il responsabile delle scene e del disegno luci è Paolo Calafiore. Produzione Fattore K, con numerose collaborazioni, è un progetto ideato nell’ambito di Fabulamundi, Playwriting Europe 2014.
Visto sabato 20 giugno al XX Festival delle Colline Torinesi diretto con rigore e coerenza da Sergio Ariotti e organizzato da Isabella Lagattola che proprio quel giorno si è chiuso e che ha dimostrato e confermato ancora una volta la sua capacità di articolare l’evento festival, che pure ha avuto dal primo giugno partecipazioni come sempre rilevanti, in un rapporto plurimo e poliedrico con la città preservando libertà intellettuale, tutela degli artisti e solide relazioni ma anche la continua capacità di innovare e innovarsi.
Ne è stato un esempio questo spettacolo uno dei quattro inseriti nell’ambito di “Torino incontra Berlino” che tra musica, libri, film e appunto teatro ha attraversato la città da Aprile fino a Giugno 2015. In effetti come scrivono gli organizzatori nel comunicato stampa è, questa ventesima, una edizione speciale che vuole e riesce, in un momento di difficoltà, a mettere Torino al centro dell’interesse generale anche inserendo l’evento nel contesto di quel gemellaggio con Berlino.