Enzo Moscato riscrive in questo suo lavoro Carmen, icona simbolo di un femminile ribelle e libero e quindi anche dello sguardo insicuro e violento di un maschile in discussione, iscrivendola come una sorta di continua gestazione e di ripetuto travaglio all’interno del ventre caldo e oscuro di Napoli, così che quella stessa icona si fa man mano metafora di una più generale condizione umana ed esistenziale, oltre ovviamente la più facile sociologia, che tutti ci riguarda e tutti ci coinvolge.
Come un eterno ritorno a sé stessi dunque la drammaturgia (uno spettacolo nuovo, di teatro e di musica, di poesia e di ritmo lo definiscono gli autori) si apre e si chiude sui due protagonisti non domi, ma feriti e sfigurati dalla perenne incapacità a gestire, anche nella relazione, quei sentimenti e quella affettività
diffusi e profondamente iscritti nella loro più intima identità.
La testualità, in una scrittura come quella di Moscato intrinsecamente votata alla dicibilità e quindi alla recitazione, è costruita attorno ad un dialetto popolare ma insieme dalle indissolubili ascendenze letterarie, che alterna così con sapienza piano alto e piano basso e ne esalta la significatività e la comunicabilità, nel suono e nella ricercata musicalità, ben oltre la stessa significanza della parola.
La bella messa in scena di Mario Martone, che ribalta in visione scenica le tonalità oscure e insieme man mano fiammeggianti della narrazione, enfatizza la sintassi del testo con appropriate soluzioni scenografiche, di movimento e di grammatica recitativa.
Lo fa quasi recingendo la drammaturgia in un nuovo contenitore ove la musica e la gestualità dell’Orchestra di Piazza Vittorio e l’originale adattamento delle musiche di Bizet, nell’arrangiamento di Mario Tronco e Leandro Piccioni, assumono non solo la funzione di coro ma anche quella di una ulteriore efficace mediazione significativa, quasi alla ricerca di una comune radice in cui far rimbombare, come una eco melodica, il senso complessivo di narrazione, drammaturgia e messa in scena.
Enzo Moscato si conferma così uno dei migliori drammaturghi della scena italiana nella sua capacità di filtrare emozioni e significati esistenziali e universali attraverso il suo sguardo così profondamente radicato in Napoli e nella sua tradizione ma senza rimanerne prigioniero, anzi rivivendo e facendoci rivivere, rendendocene consapevoli, una modernità difficile e anche tragica e che proprio attraverso quella griglia ci si smaschera quasi davanti agli occhi. Ed infatti anche il finale modificato, ove Carmen non muore ma è accecata, è un significativo suggerimento.
Martone con la sua regia, alternando anch’essa prospettive alte e basse, oscuri recessi in movimento e baluginanti e torreggianti luminosità, se ne è fatto coerente interprete e ci guida in questa peripezia tra bassifondi reali e icastici richiami alla nostra intimità e ai suoi slanci. Lo fa anche citando maschere (il matador della tradizione diventato “o torero” cantante neo-melodico) e sintassi della vita partenopea e della “sceneggiata” che, forse da sempre, la interpreta con più immediatezza e ove, appunto, ogni movimento e sviluppo narrativo non vale in sé ma solo in funzione dell’evento che prepara.
Iaia Forte è Carmen, anzi Carmén, la protagonista, donna che non rinuncia e non sceglie, donna carnale e materica ed insieme intellettuale e spirituale, come ci suggerisce Moscato, un tramite dunque al nostro fianco o davanti a noi tra quell’alto e quel basso, sempre più difficili da armonizzare ed amalgamare tra loro, e con cui con sempre maggiore difficoltà facciamo i conti. La sua è l’ennesima interpretazione di intelligenza recitativa e di intensità mimica, in cui il corpo si fa tramite dello spirito, interpretazione che ne conferma, ma i dubbi erano pochi, la bravura e la forza di immedesimazione senza restarne, anche lei, imprigionata.
Protagonista con lei il bravo Roberto de Francesco, un Cosé trascinato dall’iniziale distacco, segnato dal paradossale accento veneto (una citazione?), nel gorgo di Partenope, non tanto segnato dalla passione quanto dallo sguardo che da esso si fissa improvvisamente sulla nostra interiorità. L’amore è dunque un tramite, in questa narrazione e in questa drammaturgia, non un fine ovvero uno scopo.
E poi gli altri, bravi anche loro, della compagnia, da Ernesto Mahieux a Giovanni Ludeno, il morto “acciso” che non trovando pace ritorna come un revenant, da Anna Redi, Viviana Cangiano e Kyung Mi Lee, le “compagne” di Carmen, a Francesco di Leva (‘O Dancairo), Houcine Ataa (‘O Torero) e Raul Scebba (‘O Rinacciato) maschere da sceneggiata. Con loro mescolati a turno i componenti della Orchestra di Piazza Vittorio, sistemata dal vivo come in un teatro lirico, in una sorta di rimescolamento, tra musica e recitato, e di travisamento alienante dei ruoli.
Le scene, già citate per la loro efficacia, sono di Sergio Tramonti, i costumi di Ursula Patzak, le luci di Pasquale Mari, il suono di Hubert Westkemper e, infine, le coreografie di Anna Redi.
Tutti da elogiare in questa produzione congiunta del Teatro Stabile di Torino e del Teatro di Roma, tra le compagnie ospiti dello stabile genovese al Teatro della Corte di Genova dal 21 al 26 aprile. La prima ha raccolto applausi ampiamente meritati e anche calorosi.