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Evento unico, a Napoli ed in Italia, quello che si è svolto domenica 19 aprile, presso il Teatro San Ferdinando di Napoli. Un percorso artistico, culturale ed antropologico di grande suggestione, che apre le porte ad un teatro dal respiro europeo. Questa la sensazione più intensa trasmessa dallo spettacolo IL VELO/ THE VEIL: più che uno spettacolo, uno studio culturale e sociale, un workshop, il tutto connotato da una profonda poesia, che ci aspettavamo di rivedere in scena, attraverso le immagini di Davide Iodice. Il regista, le cui produzioni e studi abbiamo osservato negli ultimi due anni, soprattutto durante il Napoli Teatro Festival Italia, presenta “fugacemente” questo prodotto nella città di Napoli, dove è stato volutamente “costretto” a germogliare, per poi partire alla volta della Svezia. Ed è proprio la Svezia a rappresentare l’elemeno cardine di questo studio, almeno durante la lunga ed intensa fase di creazione, poi evolutasi con la convivenza napoletana e la messinscena, quest’ultima

inevitabilmente in fieri, in trasformazione, mai univoca. IL VELO è una produzione del Teatro Stabile di Napoli, lavoro che nasce da una collaborazione con l’Università di Napoli “L’Orientale” e con la Scuola Elementare di Teatro,  ma soprattutto con il Folketeatern di Göteborg, nell’ambito del progetto “Città in scena /Cities on the stage”,  ed il finanziamento del Programma Cultura della Commissione Europea. Il respiro europeo si ascolta non solo attraverso i nomi dei partner di questo progetto, ma soprattutto attraverso il progetto stesso. Sette tirocinanti di lingua ed origine svedese, che hanno cominciato questo percorso proprio in Svezia, approdano poi a Napoli, dove hanno vissuto la città, ed in città, anche attraverso dei tutor speciali, vere e proprie guide. L’impatto con Napoli, da parte di parlanti e di abitanti svedesi, ma soprattutto di Europei a tutto tondo, crea commistioni inimmaginabili. La convivenza con la città, da parte di questi ”attori- portavoce- testimoni”, è  voluta ed imposta “violentemente”, rivolta a persone provenienti da una cultura nordica, del tutto diversa da quella mediterranea, o specificatamente napoletana, come in questo caso. Dobbiamo, dunque, tener conto della specificità culturale ed antropologica che detiene la città di Napoli: anche l’esperienza di chi scrive questa recensione è quella di un abitante ed osservatore esterno, ormai radicato nella città, seppur con origini mediterranee. Chiunque si fermi a vivere in questa città, provenendo da un altro luogo, impara necessariamente delle regole, specifiche e rigide, ma soprattutto riconosce la convivenza quotidiana con eccessi e contrasti. Napoli convive constantemente con le tradizioni, la cultura atavica, i gesti ed i linguaggi sconosciuti ai non napoletani – ma non per questo inaccesibili – ma anche con il contrasto  con la contemporaneità, la decadenza, e l’innata volontà verso l’evoluzione, così come con la costante curiosità che dimostrano i Napoletani. Il discorso portato avanti da Iodice è naturalmente di stampo artistico, ma non può esimersi da un percorso sociale ed antropologico, necessario a questi sette performers, per elaborare un prodotto finale di questo tipo. In realtà non sarebbe esatto definirlo “finale”, in quanto l’iter produttivo, influenzato dalla città di Napoli, non può arrestarsi ma deve necessariamente ri-evolversi durante il successivo contatto con la Svezia. Lo spettacolo, infatti, debutta a Napoli, ma è in partenza alla volta di Göteborg, dove andrà in scena il 29 aprile. L’intero prodotto artistico, che mescola visionarietà, immagini, quadri, danza, recitazione e musica dal vivo, non dimostra solo una semplice commistione, ma una vera e propria fusione di identità, più che di culture, che è un risultato molto più profondo e complesso rispetto a quello che potrebbe nascere da un semplice “incontro”. La musica, quella creata, piuttosto che suonata, da Harriet Ohlsson, voce delicata che sembra risuonare tra i ghiacchi, riscaldandosi, poi, attraverso le sonorità mediterranee, è riprodotta dal vivo e campionata in scena, creando una fusione musicale che rispecchia l’intento dell’intero progetto. La verità profonda di questo lavoro è che nessuno, tra gli spettatori,  ha la possibilità di distinguere volutamente lo svedese o il napoletano, e quindi le due culture. Nonostante la pronuncia distorta da parte di parlanti svedesi che recitano anche in napoletano, il limite che caratterizza la divisione tra le due culture rimane vivo, ma nello stesso tempo si attua una mescolanza eterogenea, sebbene equilibrata, che non si fonde mai del tutto, né si divide mai completamente. Quale immagine più consona, quindi, nella descrizione di questa città, che appare esattamente contrastante agli occhi di chi arriva da fuori, ma soprattutto di chi si ferma per un breve o lungo tempo. I diversi quadri rappresentati sono condotti essenzialmente in lingua inglese, ed appaiono come piccoli diari in cui ogni protagonista ha vissuto e narrato la città. Ma ciò che appare sul palcoscenico non è banale racconto, bensì rielaborazione allegorica di elementi caratterizzanti Napoli, compresi i luoghi comuni. Kristin Falksten comincia con una narrazione importante, e soprattutto con una vestizione: l’abito da casalinga, le ciabatte ed i capelli arruffati, tipici delle donne che si affacciano nei vicoli. Kristin-Filumena, così definita in un quadro in cui il riferimento al personaggio eduardiano è esplicito, impone subito l’immagine del contrasto, mescolando inglese, italiano, napoletano, svedese. Ma il contrasto è rappresentato anche dalla descrizione delle sensazioni nate dall’osservazione della strada, il Corso Umberto, la via di accesso al centro, caratterizzata dalle masse di popolazione che camminano, e i vicoletti del centro storico, risuonanti di voci. << There is no illusion, no cover up, no Swedish politeness>>, risuona subito Kristen, e l’educazione svedese è impossibile in un luogo in cui << non puoi permetterti di essere lento o distratto per le strade>>. Ed in effetti è proprio così. Importante il concetto di “diversità”, quella di una svedese bionda che è troppo alta e troppo chiara per non essere notata, ma soprattutto per non essere poi identificata nella straniera badante o prostituta, di cui la città pullula, all’interno del suo melting pot linguistico e razziale. Fino a citare il rapper che canta <<this is a land of Bipolarismo>>, indossando casco e pistola, mentre sul fondo si proiettano le immagini di Scampia. La scenografia asettica  mescola luci lattiginose, alternando il bianco nordico, al cui interno si muove una “sirena-mermaid”, Caroline dagli occhi a mandorla, splendida narratrice che attraverso il suo corpo strisciante e simbolicamente senza gambe, descrive le donne affacciate alle finestre, nei vicoli, immagini femminee a mezzo busto che rimandano alla leggenda della Sirena Partenope. Dai barboni alla religiosità viscerale e profondamente umana, il bianco nordico si colora di un sole opaco, velato appunto, ricordando il titolo, che non dobbiamo mai perdere di vista. Pulcinella, qui, è Peter, e non il “Peter” inglese ma quel nome dalla pronuncia nordica dura e pungente. Pulcinella è uno svedese che trascina un teschio legato alla corda, ed è l’unico attore che parla in italiano- napoletano, scimmiottando la gestualità pulcinellesca, che, incredibile a dirsi, è mimesi di una stessa maschera. Il teschio, simbolo di morte, in Svezia è solo <<oggetto clinico per studi anatomici, ma qui la morte è viva>>, come afferma Peter. Ed in effetti mai altra città ha avuto un rapporto così intimo con i propri morti, un dialogo costante, quotidiano, necessario, fonte di salvezza, risorsa antica, rigenerazione che nasce ossimoricamente dal teschio. Pulcinella si porta dietro il teschio-città, la cosidetta “capuzzella”. Del resto, quando si vive a Napoli, si impara anche ad accarezzare le sculture di teschi sparsi per la città: pare portino fortuna.
Gemma parla di un fantasma nella sua stanza napoletana, ricordando il tema del “munaciello”, o della “bella’mbriana”, lo spirito della casa, e convive con lui, piccolo spirito di migliaia che vivono nelle mura di questa città, Ma ciò che aggiunge è fondamentale: <<tutta la città ha mani che respingono e trattengono. Schiaffi e carezze. Carezze e schiaffi. Niente è come sembra>>. In alcuni momenti dello spettacolo la lingua utilizzata, seppur brevemente, è lo svedese. Lingua personale, incomprensibile agli italiani, ma immediatamente d’impatto quando lo spettacolo andrà in scena in Svezia. Anche il linguaggio, dunque, rende molteplice e completamente diversa la fruizione di questo spettacolo, nei diversi Paesi che lo hanno generato. Sfaccettature, quindi, di respiro europeo. Concludiamo con quello che avrebbe dovuto essere l’inizio: il titolo. Il riferimento immediato è alla scultura del Cristo Velato, conservata presso la Cappella Sansevero di Napoli. Il Cristo, in questo spettacolo, è vivo, come sembra effettivamente la scultura, soprattutto agli occhi dei non Napoletani. In scena il corpo, avvolto nei veli, ovattato ed opaco anch’esso, respira, affannosamente, gonfia il ventre, sembra gravido. La crisalide Napoli ha bisogno di rinascere: proprio Pulcinella, nella scena finale, chiede aiuto al pubblico, mentre il “Cristo - martire – velato –Napoli” gli muore tra le braccia, in una “Pietà” di dolorsa e commovente poesia. Chiede aiuto, come l’aveva chiesto Cenerentola, nei quadri precedenti, la ragazza che perde la scarpetta, personaggio che nasce all’interno della cultura napoletana: scippata da un rapinatore che le ruba proprio quell’oggetto, rappresenta il dolore,  la violenza, ma anche una parte di noi che rimane, e che ci viene strappata, inevitabilmente ed incosciamente, da Napoli, dopo aver vissuto in questa città. La platea si illumina, mentre Pulcinella-Peter continua a chiedere aiuto. Si alzano decine di giovani attori che hanno riempito il teatro: salgono sul palco in religioso silenzio, salvano Napoli, intonano un canto funebre e di rinascita insieme. Perché tutto questo è Napoli, oltre il suo Velo, nella sua profonda verità.

IL VELO/THE VEIL
Teatro San Ferdinando Napoli
19 aprile 2015
condotto e diretto da Davide Iodice
con Gemma Carbone, Kristin Falksten, Peter Jägbring
Caroline Sehm, Robert Söderberg, Linda Wardal
musiche originali eseguite in scena da Harriet Ohlsson