Segnare in nero i fatti, in rosso segnare i pensieri, in blu gli appuntamenti, segnare tutto; distruggere la stessa possibilità d’esistenza di ciò che un filosofo nostro contemporaneo (Agamben) chiama “l’in-dimenticabile”, ovvero la massa di ciò che, non essendo da noi registrato e quindi letteralmente memorabile, non può essere nemmeno dimenticato, eppure esiste in noi e fuori di noi, ci condiziona e/o ci illumina. Per capire “Ti mando un bacio nell’aria”, l’ultimo intenso e raffinato spettacolo della compagnia palermitana “M’arte” (Movimenti d’arte), diretto da Giuseppe Cutino e andato in scena dal 14 al 20 aprile nella Sala Strehler del Teatro Biondo di Palermo, occorre andare direttamente al nodo drammaturgico da cui sgorga, alle domande da cui ha origine e che poi ribalta sul pubblico. In scena si affrontano con fisica durezza Sabrina Petyx (anche autrice del testo) e Massimo Verdastro (entrambi potenti e misurati), le scene e i costumi sono di Daniela Cernigliaro. Un uomo e una donna
(non è dato saper se amici, amanti, coniugi) si affrontano duramente in un ring (una assai finta e domestica moquette/prato, decostruita, che l’uomo continua pazientemente a riattare). È una lotta serrata, senza esclusione di colpi: lei vorrebbe andar via, uscire, liberarsi da quell’opprimente situazione di coppia, ed è sempre sul punto di farlo, indossa un gran cappotto, poi se lo toglie e ancora lo rimette; lui riesce a trattenerla, la strattona, la ricatta, senza tanti complimenti, sfruttandone paure e debolezze («abbiamo in mano buone carte…»). Lui si muove a piccoli passi in quell’ ambiente, conta ogni cosa, misura spazi e tempi, annota tutto giorno dopo, ora per ora, in un piccolo taccuino, tutto, compulsivamente, ossessivamente, ogni parola, ogni situazione, ogni oggetto («te lo ricordi, il lume della zia…»), ogni movimento, ogni alito di vita, di passato e di futuro. La vincente e mortifera tirannia dei dettagli da una parte, dall’altra la debole resistenza di una rivoluzione creativa che non trova sufficienti energie per avviarsi: questi i binari su cui si avvia e si dispiega questa piéce. Inutile dire che possono esserci molte chiavi di lettura per interpretare tale affascinante situazione teatrale e moltissime sono le influenze artistiche, letterarie (ben oltre la dichiarata ispirazione dalla “Trilogia della città di K.” di Agota Kristoff), teatrali e filmiche che vi si possono scorgere con più o meno evidenza (Pirandello certo, ma non ci pare lontano dalla sostanza dello spettacolo anche un retrogusto legato al cinema di Buñuel) che vi si possono ravvisare. Del resto parliamo di un ben affiatato ensemble teatrale: un gruppo di artisti colti, gente seria e poco incline alla fretta in fase di elaborazione, artisti che hanno dato negli anni ottime prove del loro valore. E detto questo, non ci sarebbe molto altro da aggiungere su questo spettacolo se non noiosa aggettivazione pseudo-critica che non serve a nessuno. Eppure non sembra superfluo, nel provare a leggere in profondità questo lavoro, riflettere ancora un po’ su quello che appare il suo nodo drammaturgico centrale, ovvero sull’interrogazione (anche politica) riguardo a quale sia, o a quale possa essere, il vero luogo della libertà e della creatività nelle relazioni tra persone (e non solo tra singole persone). È la memoria questo luogo? E in che modo e fino a che punto essa si deve coltivare, visto che oggi ci troviamo nella condizione di ricordare potenzialmente (e patologicamente) tutto? Davvero si deve coltivare sempre la capacità di ricordare e, nel ricordo, di rischiare di lasciare attivo il veleno della storia? Oppure è piuttosto l’oblio il vero luogo della libertà e della creatività? È possibile e giusto dimenticare il male? Può essere una virtù attiva l’oblio? Che rapporto può esservi tra oblio e giustizia? Come nutrire la capacità di dimenticare, di girar pagina, di liberarsi e andare avanti (insieme o da soli, poco importa)? Oppure si può pensare ancora a una mediazione: forse è nel dialogo, paziente e rispettoso, tra memoria e oblio che si può trovare uno luogo per la possibilità d’essere felici e, ancora, creativi. Ecco, si deve andare oltre l’apparenza del semplice scontro tra due persone che non si amano più (o il cui amore è malato), per capire questo spettacolo. Andare oltre e poi accettare che, nello scontro duro, serrato, difficile, straordinariamente teatrale e tragico, tra quei due poveri esseri, invano si cercherebbe una risposta univoca alle domande di prima. Ed è bene che sia così, se è vero che il teatro non deve fornire risposte a buon mercato ma promuovere domande autentiche.