La quarta edizione del Bando promosso dal Teatro della Tosse di Genova e destinato alle compagnie liguri emergenti, ha selezionato quest’anno tre studi drammaturgici che si sono alternati il 9 e 10 maggio nella Sala Campana e, l’ultimo, nella sala Agorà.
SOLO//SOLA
Spettacolo di teatro danza che analizza la solitudine come assenza di spazio, cioè di uno spazio che definisca e dia un senso al nostro posizionamento esistenziale, dunque che dia significato al nostro esserci in un mondo che appare sempre più svuotato di riferimenti e orizzonti. Il movimento coreutico è il segno di questa ricerca nel vuoto, paradossalmente claustrofobica, e cerca un incontro. Attorno ad esso un’altra ricerca si accenna, autonomamente, e
man mano sviluppa, una ricerca che disegna confini e orizzonti. Orizzonti, lampi di luce e anfratti luminosi con cui la proiezione elettronica occupa il palcoscenico. Il loro incontro crea infine una inaspettata condivisione, grazie alla quale il moto del corpo si appoggia e si conforta in un segno percepibile nello spazio. La condivisione è un mondo a due che vuole indicare finalmente un luogo in cui esistere oltre la solitudine.
Interessante performance questa, un dialogo tra la danzatrice coreografa Roberta Messa, dai mezzi indubbi e in crescita, e il grafico Carlos Lalvay Estrada (entrambi curano anche la regia), che si avvale della bella musica dal vivo (Contrabbasso ed elettronica) di Tommaso Rolando. I costumi sono di Laura Degl’Innocenti e le luci di Federico Canibus. Una co-produzione Altrove Teatro della Maddalena, applaudita e da seguire.
KILLER STORY
Molto più tradizionale l’approccio drammaturgico di questo lavoro di e con Luca Di Franco, Roberto Imperato e Marco Picchierri. Un plot interessante, anche se non originalissimo, ed una scrittura, testuale e scenica, volenterosa certo ma ancora piuttosto immatura nella gestione della narrazione, che non evita pause nel ritmo della sua esposizione, e nella recitazione ancora un po’ schematica per mimica e gestione della voce. Ciò nuoce alla naturalezza e alla verosimiglianza, ostacolando anche una più spontanea immedesimazione, cosa che impone alla giovane compagnia di continuare ed approfondire il lavoro sul testo, sulla messa in scena e sulla articolazione recitativa. Se ne gioverebbe probabilmente la storia dei due bancari ladruncoli e del loro bieco direttore, un po’ sospesa, quasi senza radici e dunque, senza un ragionevole prima ed un altrettanto ragionevole poi, carente di credibilità. Lo spettacolo e i protagonisti meritano comunque un incoraggiamento che il pubblico non ha fatto mancare.
PROCLAMI ALLA NAZIONE
Ben altro lo spessore di questa intrigante pièce che sa mescolare, con sapienza, fedeltà ai linguaggi (estetici e rappresentativi) del miglior teatro e innovazione efficace e di respiro. Ci troviamo qui, in un certo senso, in un post Beckett per la capacità della scrittura scenica di organizzare in senso la percezione, inevitabile, dell’assurdo che innerva e regola i pensieri ed i comportamenti umani, un assurdo ormai così introiettato da non essere quasi più riconosciuto come tale. Si intuisce qui la capacità del teatro, e dell’arte in generale, di lavorare e tramutare il materiale segnico che ha man mano di fronte, così da ribaltarlo quasi in un nuovo mondo. Siamo in un mondo e in una società così liquida che ormai si fatica ad intercettare la parola significante (la materia estetica del teatro a lungo cercata da Sanguineti), e molte e molte reti vanno gettate in questo improvvido mare, anche quella di questa giovane compagnia.
Citando Vladimir Nabokov, alla base non può che esserci “la convinzione della potenza creatrice della Parola che genera un mondo non meno reale della vita viva e come quest’ultima fantasticamente ingannevole e complesso” cosicché l’arte “in sostanza non è altro che la pittoresca verità della vita; bisogna saperla cogliere, tutto qui.”
Quattro attori, più personaggi, ciascuno ad una improvvisata finestra di luce a descrivere la propria insussistenza, ribaltando, con il motore dell’ironia ed il veicolo della risata, l’assurdo in senso della vita, in sua direzione liberatoria.
Scritto, diretto e interpretato da Elisabetta Granara, Giancarlo Mariottini, Sara Sorrentino e Carlo Strazza lo spettacolo sa gestire con abilità simbologie e travestimenti, silenzi e narrazione in un percorso coerente il cui terminale è il pubblico. Scatta così quella semplice magia e la comunicazione riscatta un’offerta di dialogo gettata con coraggio allo sbaraglio.
Si è riso molto ma mai a caso. Il lavoro è già oltre un suo primo abbozzo e già equilibrato, ben scritto e ben messo in scena. Potrà trovare nel prosieguo uno sviluppo e una crescita ulteriore, ma se ne riconoscono già temi e sintassi dei precedenti spettacoli di Elisabetta Granara (“Ci vediamo al Dì per Dì” e soprattutto “Amami, baciami sposami”) nell’attenzione alle modalità della contemporaneità e ai suoi stilemi, mai assunti però, passivamente e acriticamente.
Il pubblico ha partecipato, condiviso ed applaudito a lungo. Merita di essere rivisto.
Una ultima nota per il Teatro della Tosse che, anche con questa iniziativa, dimostra di essere fedele e coerente con una sua originale ispirazione che cerca di costruire attorno alla sua attività più propriamente artistica non solo il senso di una comunità, ma una comunità vera e propria, fatta di luoghi e di persone, concretamente attiva e partecipe. Un teatro senza una vitale comunità di riferimento è come un cuore senza sangue, non si rinnova e muore. In questo modo la “stagione” non è più un rituale, come spesso accade, ma il motore di una sempre più solida trama di relazioni. Merito questo da riconoscere al direttore Amedeo Romeo, al direttore artistico e drammaturgo Emanuele Conte e a tutto lo staff, merito che anche istituzionalmente dovrebbe essere maggiormente riconosciuto.