A metà strada tra il Festival tradizionale ed il bando di concorso, dal 2009 In-Box tenta di promuovere le realtà emergenti della drammaturgia italiana contemporanea offrendo non solo un riconoscimento critico ma, soprattutto, mettendo a disposizione un circuito di realtà operative ed un numero consistente di repliche e quindi una “distribuzione” (in palio 49 repliche per un cachet complessivo di 49.000 euro).
In effetti è questo, spesso, l’ostacolo principale per le giovani compagnie che, magari ricevendo attestati interessanti e commendevoli, non trovano poi “scritture” sufficienti e dignitose, così da poter far circolare, e dunque anche far crescere e migliorare, i loro spettacoli.
Quest’anno la fase finale, seconda edizione di “In-Box dal vivo”, si è tenuta dal 21 al 23 maggio a La Spezia,
ospite di “FuoriLuogo”, uno dei partner della rete, e ha visto rappresentati tra l’Auditorium Dialma Ruggiero e il CROO Teatro della Marina i sei spettacoli finalisti.
PINOCCHIO – Zaches Teatro
Il burattino-bambino creato da Collodi è forse il personaggio letterario più “immediatamente” riconosciuto, eppure continua a riassumere e veicolare in sé e nelle sue peripezie un “grumo” di mistero che affonda inevitabilmente le sue radici nei recessi più profondi della nostra identità. Di fronte a ciò la consueta ed insieme desueta distinzione tra “teatro per ragazzi” e “teatro per adulti” perde qualsiasi rilevanza perché il percorso dell’uno sta dentro il percorso dell’altro e l’esito del secondo giustifica la natura del primo. La drammaturgia di Luana Gramegna, che cura anche la regia, in bilico perenne tra linguaggi e sintassi diverse (la maschera della commedia dell’arte e l’arte del burattinaio, la danza e la drammaturgia) ne recupera l’essenzialità di essere la storia di un nostro divenire iniziatico, la struttura profonda del nostro movimento di conoscenza del mondo, il “dentro” dunque di un mondo ormai piegato alla sola apparenza. È il ribaltamento paradossale tra burattino ed essere umano imposto dalla scrittura drammaturgia che crea un “vulnus” alla nostra percezione alienata e la conduce appunto dentro, un dentro ove la struttura fondante della fiaba ci svincola e in fondo ci protegge dalle limitazioni della contemporaneità. Articolate e interessanti le ascendenze, anche indirette, di questa drammaturgia, dagli studi di Propp e dei formalisti russi intorno alla fiaba e ai suoi collegamenti con i riti di iniziazione, a Von Kleist e il suo teatro delle marionette, ascendenze attraverso le quali conoscenza e rapporto con la morte (e dunque con la paura e il suo superamento) diventano i protagonisti di un processo di consapevolezza, identificazione e relazione con un mondo che quasi circonda e assedia questa interiorità incubatrice con le sue figure istituzionali, non per caso qui “assenti” in scena a partire da Geppetto. Un ottimo spettacolo sin dalla riscrittura del testo, fedele con creativa libertà all’originale collodiano, e poi nella messa in scena assecondata da luci costumi e maschere (molto belle) di Francesco Givone, nelle musiche originali di Stefano Ciardi ed infine nella recitazione, in perfetto equilibrio tra meccanicità e condivisione, di Gianluca Gabriele, Giulia Viana e Enrica Zampetti.
L’INSONNE – Lab121
Il passato è ciò che è irriducibile, è ciò che è stato e per questo non potrà mai essere cambiato, eppure la memoria ne rappresenta una via di fuga nel procedere inesorabile di ogni esistenza. La memoria si distanzia e ci distanzia, rielabora ricreando un passato dal significato diverso, parabola dei desideri più intimi e quindi prodromo di ogni nostro futuro. La memoria e quindi la scrittura come mezzo di appropriazione attraverso l’alienazione, questo nel profondo dell’opera letteraria di Agota Kristof. La Kristof sembra vedere la sua vita nell’emigrazione come parabola del distacco e dell’impossibile sradicamento, e non per caso scrive esclusivamente in francese rinnegando la sua lingua madre, l’ungherese, quasi che la barriera di quelle parole non sue la riscattasse dai suoi legami con il passato. Non solo, il francese è diventato anche il tramite per costruire quasi una nuova lingua che si adatta a nuove narrazioni e costruzioni così intimamente drammaturgiche. Da un romanzo breve della scrittrice ungherese, “Ieri”, è in effetti tratta, con onirica fedeltà che gli eventi rispetta e tradisce insieme nella narrazione scenica, questa drammaturgia della giovane compagnia milanese. Claustrofobia rinchiusa nella memoria appunto irriducibile, proietta oltre la scatola scenica i propri desideri come ombre in fuga apparente che talora trascinano anche i corpi e le esistenze. Tobias e Line, il loro passato comune e anche tragico, le loro profonde corrispondenze esistenziali, il loro improvviso ritrovarsi ricostruiscono un presente ma non possono darsi alcun futuro, come la morte sempre cercata e sempre sfuggente ed ironicamente irridente. Una scrittura quella di Raffele Rezzonico e Claudio Autelli complessa, ovviamente anche nella impostazione della traduzione, che talora eccede nell’occupare la scena anche a scapito di quei richiami significativi che nascono dai silenzi e dalle assenze, anch’essa in fondo in fuga. Un buon lavoro comunque, ricco di pathos con qualche caduta, in cui i due protagonisti, Alice Conti e Francesco Villano, affondano radici intime e identificatorie. La regia è di Claudio Autelli, le scene e i costumi di Maria Paola Di Francesco, le luci di Simone De Angelis, il suono di Fabio Cinicola per una messa in scena nel complesso compatta e significante.
AMLETO FX – VicoQuartoMazzini
Amleto, come ogni grande mitologia drammaturgica, compendia e sopporta il peso di mille interpretazioni che dalla irresolutezza e indecisione declinano nel disagio esistenziale, dal freudianamente edipico terrore di castrazione, con connesso senso inestinguibile di colpa, al ribellismo solipsistico. Questa eterodossa drammaturgia di e con Gabriele Paolocà entra di diritto nel novero con il merito di una riscrittura che riconduce a contemporaneità, utilizzandone però stilemi e luoghi comuni quasi per de-potenziarne nell’ironia gli effetti destabilizzanti in una Società che sembra aver fatto del nulla l’emblema di una rinnovata oppressione e cancellazione delle ontologie. Questo moderno “quasi casualmente” Amleto, chiuso nella sua stanza ancora adolescenziale, non cerca più ormai neanche una soluzione o una identità e si limita ad un riassunto, elencatorio e sterile, di stati mentali estrinsechi ed indotti, di cui i social network sono metafora purtroppo assai concreta, fino a depotenziare la stessa morte, che da tragico limite diventa un modesto click computerizzato che spegne le esistenze. Un buon lavoro di scrittura accompagna le sue peripezie, con sintassi che utilizza e mescola con abilità linguaggi letterari antichi e moderni e slanci di poesia alle poche battute di un tweet. Anche fisicamente l’identità è perduta e surrettiziamente sostituita dai travestimenti che l’occasione offre al progredire di una vita senza più progetto. Ritmi intensi e movimenti recitativi di buon livello che puntano a contrappore, mescolandoli, registri classici a tonalità grottesche, con effetto di straniamento talora declinante e non pienamente sostenuto dalla gestione della voce. Ritmi e movimenti in punto assecondati dalla regia cui hanno collaborato Michele Altamura e Gemma Carbone, che ha curato anche le scene dominate da un cappio ormai inutile per esistenze finite prima della morte. Il disegno luci è di Martin Emanuel Palma.
DONNA NON RIEDUCABILE – Santarita Teatro
Stefano Massini ha costruito questa sua drammaturgia, una sorta di docu-drammaturgia se mi si perdona il neologismo, intorno alla figura della giornalista russa Anna Politkovskaja a partire dai suoi scritti, una fonte di ispirazione più che un riferimento sintattico. Della storia di Anna molto sappiamo, sappiamo anche che di molto di quello che è successo non sapremo mai nulla. Così Elena Arvigo riesce a costruire a partire dal testo un nuovo progetto scenico, un ulteriore livello di conoscenza e condivisione che mette al centro della scena, più che le azioni della Politkovskaja, il suo atteggiamento, rigoroso e alieno ai compromessi, nei confronti della realtà. Un discorso che trae ulteriore linfa da una, suggerita e sottotraccia, declinazione al femminile che esalta come in controluce, sul fiammeggiare dei conflitti, il posizionamento, talora contraddittorio, delle donne e le loro sofferenze. Una denunzia che per questo riesce ad escludere dal proprio orizzonte ogni retorica. Il contesto, è noto, è quello della guerra in Cecenia che ha contrapposto, forse ancora covando sotto le innumerevoli ceneri, indipendentisti islamici e russi che da secoli tentano con fortune alterne di consolidare il Caucaso. Le conseguenze sono attentati e uccisioni, stupri e feroci campagne di morte, la perdita da un lato e dall’altro di ogni umanità. Anna non sta da una parte contro l’altra, o dall’altra contro la prima, il suo scopo è guardare e soprattutto, dopo aver guardato, vedere. È un dire la verità che non propone, né può farlo, ma senza la quale nessun riscatto, degli uni e degli altri, è possibile e nessuna soluzione ipotizzabile. La sua colpa non sarà perdonata o riscattata, fino al barbaro assassinio nell’ascensore della sua casa di Mosca. Figura singolare che si associa a tante altre donne, nel passato e nel presente, agite e che agiscono nella “guerra”. Il testo è ricco e la messa in scena cerca di enfatizzarne, nelle scarne scenografie e con quella porta mai attraversata e portata per il palcoscenico quasi come una croce, la struttura significativa anche oltre la dimensione narrativa. Uno spettacolo forse ancora da perfezionare nei tempi, per evitare di diluirne l’impatto anche psicologico, ma rigoroso e ben condotto in scena dalla stessa Elena Arvigo. A cura di Rosario Tedesco con luci e video, ben armonizzati, di Andrea Basti.
BREVE RACCONTO DOMENICALE – Psicompo Teatro
Quattro esistenze che una qualsiasi domenica mattina cercano di raccontarsi, a prescindere dai legami che reciprocamente le legano o le hanno legate ma che sono ormai scomparsi da ogni loro relazionalità e relazionabilità. Esistenze nel vuoto che non possono così trovare riferimenti o giudizi che le giustifichino l’una rispetto alle altre o anche solo ciascuna rispetto a sé stessa. Senza una trama di rapporti che le renda consapevoli ciascuna agisce, ed ogni azione provoca reazioni incontrollate che strappano ogni progetto al suo futuro possibile o desiderato. Questa la drammaturgia dell’argentino Matias Feldman tradotta e portata in scena da Manuela Cherubini. I personaggi sono così quattro corde di uno strumento che suona sé stesso. È un parlarsi dentro, e sopra, talora enfatico ed eccessivo che sembra sfuggire, con inconsapevolezza forse, ad in ogni relazione con il pubblico, man mano ritraendosi virtualmente sempre più all’interno della scena vuota. Ne soffre il ritmo della messa in scena e la stessa recitazione, pur tecnicamente valida, che pare imprigionata in un processo senza progetto e senza finalità. Un distanziarsi che però ha il merito di evidenziare uno stato della contemporaneità in cui l’esistenzialismo fenomenologico che, da Heidegger a Jasper a Sarte, ha segnato e implementato di sé il secolo scorso sembra aver perso un pezzo. Così l’esserci dell’essere sembra diventato un esserci senza essere, un esistere senza riferimenti forti su cui articolare, registrare e giudicare la propria identità. Lo fa però paradossalmente senza alcun allarme, senza suggestionare e quindi senza suggerire, neanche attraverso la via dell’arte e del teatro. Come se la messa in scena non riuscisse ad “elaborare” nel senso più pieno del termine il lutto di quella perdita, con il rischio di involversi sul testo e su sé stessa. In scena Luisa Merloni, Marco Quagli, Alessandro Riceci, Patrizia Romeo. Immagini e suoni di Ale Sordi.
LE VACANZE DEI SIGNORI LAGONIA – Teatrodilina
Il teatro è una barca che per non affondare non può che navigare nel mare, spesso burrascoso, della vita (della Società, della Storia, della Comunità). Questa sorprendente e bella drammaturgia di Francesco Colella e Francesco Lagi vi naviga sicura, immersa com’è, e circondata dalla vita, non solo e non tanto per gli espliciti riferimenti narrativi alle “cose”, felici od infelici, della vita stessa, ai suoi drammi e alle sue ingiustizie, quanto soprattutto perché riesce a recuperare e dipanare in scena, contro tutto e contro tutti, il carburante della vita, quella trama di sentimento e amore che la innerva, la giustifica e infine la salva. Priva di ogni retorica psicologica o sociologica la drammaturgia dispiega così la sua narrazione, e la fabula come nel miglior teatro narra di noi, ci narra con l’ironia che ci apre gli occhi e anche con quella chiave tonale comica che alla fine riesce a liberarci dalla paura di guardarci dentro. I signori Lagonìa non hanno avuto fortuna, ma non hanno perso, non si sono lasciati spogliare, di quell’impasto di sentimenti, di quell’amore che ne giustifica in fondo il riso liberatorio, perché finché lo mantengono saranno liberi e mai perdenti. La scrittura agile ma aliena ad ogni superficialità dei drammaturghi ricompone la vita della coppia indirettamente, con un flash back suggerito nel procedere dei dialoghi serrati e talora muti che ne animano la relazione, mentre sulla spiaggia sembrano trascorrere una giornata di vacanza. Ferdinando è taciturno ma conquistato in fondo dal continuo parlare di Marisa, agitata quasi da un voglia di vivere e amare che niente ha potuto uccidere. Sarà così per tutta la vita, anzi “per sempre”. Il gesto risolutorio, il colpo di scena che spezza anche visivamente il corso della narrazione, è ben preparato nel divenire dello spettacolo, e alla fine ineludibile ma è abilmente dilazionato e destrutturato nel paradosso comico che rende il gesto man mano accettabile ed accettato oltre la tragedia annunciata. Una drammaturgia dunque che “nega” il senso comune che vive e vorrebbe Ferdinando e Marisa come sconfitti, ribaltando la loro vita in una vittoria e neanche amara, la vittoria di chi ha saputo difendere dentro di sé i sentimenti, preservandoli per sé e non solo per sé stessi. Uno spettacolo molto inteso, che ripropone un filone o meglio una caratteristica di molto teatro meridionale, ricordiamo solo Annibale Ruccello o Spiro Scimone e Francesco Sframeli, così sentimentalmente insanguinato e carnale e qui declinato con il distacco di uno sguardo consapevole e mai sconfitto. In scena i veramente bravi Francesco Colella e Mariano Pirrello in un contesto recitativo che recupera del travestimento in scena l’elemento di una resa significativa che riconduce i gesti alla loro essenza strutturale, liberandoli delle incrostazioni del consueto. Surreale la spiaggia costruita in scena da Salvo Ingala. La regia coerente e capace di sottolineare i punti significativi del testo è di Francesco Lagi. Una produzione organizzata da Regina Piperno che merita credo altri e numerosi palcoscenici.
Questi dunque i sei testi finalisti della manifestazione, selezionati tra ben 274 spettacoli proposti a conferma della forte crescita del progetto e delle potenzialità di questa rete di teatri, festival e soggetti istituzionali, nata nel 2009 da una idea di Straligut Teatro ed in continua crescita.
Come in ogni evento che si rispetti la giuria ha infine emesso il suo verdetto, discutibile se vogliamo come ogni verdetto ma comunque capace di dare indicazioni per la futura crescita di tante compagnie e gruppi.
A partire, come d’uso, dal basso hanno ricevuto la “Menzione Speciale In-Box 2015” (quindi senza repliche già definite) gli spettacoli “Donna non rieducabile” e “Breve racconto domenicale”.
Invece i quattro spettacoli selezionati per le repliche previste dal bando sono stati, sempre nell’ordine:
“Pinocchio” con 7 repliche, “Amleto FX” con 8 repliche, “Le vacanze dei Signori Lagonìa” con 11 repliche, ed infine, quale primo classificato, “L’insonne” con 17 repliche.
Sono stati due giorni interessanti, preceduti dalla messa in scena del vincitore dello scorso anno “L’uomo nel diluvio” di Amendola/Malorni, e ricchi di stimoli in un clima vivace, in grado di superare le inevitabili difficoltà di ogni organizzazione e per i quali va dato il giusto merito anche all’anfitrione Renato Bandoli, di FuoriLuogo ora finalmente costituita in associazione a miglior coordinamento delle realtà teatrali collegate (compagnia Gli Scarti, CasArsa Teatro e Balletto Civile), ed insieme a lui ad Andrea Cerri che ne condivide, con i pesi, anche gli interessanti progetti. Buona fortuna anche a loro.