Seconda “mise en éspace” della Rassegna di Drammaturgia Contemporanea organizzata anche quest’anno, protraendosi fino al 18 luglio, dal Teatro Stabile di Genova negli spazi della Piccola Corte. Dopo “Due” dell’inglese Jim Cartwright, restiamo per così dire nella stessa area culturale anglosassone con questa drammaturgia, datata 1996, del non più giovane autore e regista sudafricano, con ascendenze afrikaner, Athol Fugard che ora vive e insegna negli Stati Uniti di cui una pièce fu messa a suo tempo in scena, con passaggio anche a Genova, da Peter Brook.
Segnato anche nella sua esperienza esistenziale dall’apartheid e dal suo difficile, talora tragico e non ancora concluso,
superamento, il drammaturgo assume qui quel tema non tanto nel suo, pur presente ed influente, aspetto politico o sociale, quanto come metafora più generale del desiderio, talora del sogno, di libertà che attraversa gli esseri umani, anche se spesso celato o rinnegato da una rassegnazione che non è solo sconfitta ma anche, per quanto sia dolorosa, intima condivisione.
Nel rapporto tra un vecchio nato e cresciuto nella paura e sottomissione al “bianco”, impegnato ad accontentarsi, sempre e comunque, di un piccolo spazio e ruolo nella valle profumata lontana dal mondo urbano, e la nipote che invece coglie e raccoglie il senso di un rinnovamento che proprio allora si manifestava, intuendolo come una strada che si apre davanti alla sua possibile libertà e ai suoi sogni, si sviluppa questa bella scrittura drammaturgia, la cui essenzialità è ben percepita nella regia sintetica ed allusiva, ben coadiuvata da quella sorta di lanterna magica che ne è sfondo, di Matteo Alfonso.
Questa ne coglie infatti efficacemente l’alternarsi di dramma ed epos, di narrazione e movimento scenico che dà profondità all’evento e al suo sviluppo, fino alla partenza di Veronika non tanto verso il nuovo Sudafrica quanto verso la sua nuova vita, verso il sogno sempre coltivato e difeso di essere una cantante.
È dunque sul conflitto tra rassegnazione e affermazione, di cui spesso il conflitto tra generazioni come quello tra generi è solo segno per così sociologico, che gioca questa drammaturgia galleggiando su eventi che di quella intima articolazione psicologica diventano man mano espressione storica.
Efficace anche la traduzione di Franco Arato che sembra preservare e amalgamare cadenze e ritmi di due linguaggi, quella del nonno e quella della nipote, così diversi e lontani. In scena un Nicola Pannelli, che è anche la voce narrante, convincente e una Elisabetta Mazzullo brava nel recitare ma ancor più nel cantare.
Come detto alla Piccola Corte dal 27 maggio al 6 giugno. Molti gli applausi del pubblico presente.