Non c’è in questo momento storico un tema che per l’arte occidentale è più necessario ed insieme più rischioso di quello che riguarda la migrazione (e gli effetti culturali, politici, economici di questo movimento) di milioni di persone dal sud e dal sud-est del mondo verso l’Europa. Un tema centrale e presente da decenni nel dibattito culturale e nella elaborazione estetica, divenuto oggi di bruciante attualità; un tema scivoloso che è difficile comunicare con equilibrio perché da una parte facilmente soggetto a interpretazioni più o meno apertamente o subdolamente razziste, dall’altra a semplificazioni legate a un superficiale “politicamente corretto” ma che,
di fatto, non affrontano la durezza e la profondità di questa vicenda: ne derivano di volta in volta soluzioni formali che non riescono a comunicare il cuore di questo problema, ovvero la reale capacità di cambiare noi stessi in relazione all’incontro (o allo scontro) con “l’altro”. È quanto vien fatto di pensare in relazione allo spettacolo “La famiglia delle ortiche” che s’è visto il 30 maggio scorso sulla scena del Teatro “Tina Di Lorenzo” di Noto (il contesto è la rassegna “Esplora” e la produzione è dello stesso Teatro di Noto) per la regia di Alessandro Romano e l’elaborazione drammaturgica di Salvatore Tringali che si è liberamente ispirato al testo “Les paravents” di Genet (del 1961, ultimo della produzione di questo drammaturgo); in scena oltre agli stessi Romano e Tringali, Marcello Montalto e Clio Scira Saccà.
Si tratta di uno spettacolo assai complesso che presenta non poche incertezze e ingenuità (la più notevole della quali è l’incapacità – probabilmente causata da troppo amore per il difficile e fluviale testo di Genet e da generosità - di sintetizzare ulteriormente e di rendere con tratto semplice e allo stesso tempo denso, tutta la complessità concettuale e simbolica del testo di partenza), e che tuttavia contiene una qualità positiva che lo rende interessante: ovvero la consapevolezza che, per mettere in scena onestamente (o, in altre parole, per dare una compiuta soluzione formale a) un testo legato a un problema di bruciante attualità, non si può e, soprattutto, non basta sintetizzarlo ma occorre ripensarlo profondamente, riscriverlo, soprattutto, non si deve cedere sul piano di una nuova (e contemporanea) riflessione formale.
Non è cosa da poco e occorre rilevarla: il dispositivo drammaturgico genetiano viene quindi ripensato poeticamente (sebbene nel solco di una poesia dura e grottesca), scarnificato e, al posto delle decine di personaggio, situazioni ed eventi, ci si concentra (seguendo le indicazioni critiche ed ermeneutiche di Francois Regnault) sui tre personaggi di Said, di sua madre e di sua moglie Leila (ovvero “la famiglia delle ortiche”), sulla loro disperazione, sui loro caratteri, sul degrado della loro condizione di vittime, sulle loro vicende. E tuttavia, se pure il lavoro drammaturgico su Genet appare convincente nella sua struttura, ecco però che esso viene reimmesso in un quasi incontrollato profluvio di soluzioni sceniche e di citazioni teatrali e non (da Shakespeare a Beckett, dall’epica popolare siciliana a Wilson e a Stanley Kubrick) che dilatano la misura interna e indeboliscono l’efficacia politica dello spettacolo.
Da un'idea di Salvatore Tringali
con Marcello Montalto, Alessandro Romano e Salvatore Tringali
Liberamente ispirato a “ Les Paravents” di Jean Genet.
Drammaturgia di Salvatore Tringali
Regia di Alessandro Romano