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VI ed ultima parte: si conclude il nostro diario dedicato al Napoli Teatro Festival Italia 2015. Come promesso, anche la conclusione di questo sguardo prolungato è caratterizzata dalla Sicilia, ed in particolare da due spettacoli che hanno chiuso il cartellone del Fringe Festival. Parliamo di VOLVER, produzione BABEL CREW e regia di Giuseppe Provinzano. Made in Palermo anche PORTOBELLO NEVER DIES, di Rosario Palazzolo, da un’idea di Delia Calò, Monica Andolina e Chiara Pulizzotto.
Con VOLVER, premio alle arti sceniche Tuttoteatro.com Dante Cappelletti XI edizione, ci trasferiamo in Argentina, pur partendo dalla terra siciliana ed approdando in America. Ed il titolo, in spagnolo, rappresenta il senso più profondo di tutto il raccono. Il “tornare” ma, in barba ad Ulisse, si può anche decidere di non tornare più. La storia, ambientata a Messina e dintorni, durante e dopo il terremoto del 1908 che colpisce anche i piccoli centri circostanti, si protrae

per ben vent’anni, attraverso un diario scenico, e si conclude durante il Fascismo. L’andamento temporale di questo spettacolo, caratterizzato dal racconto e dall’oggetto narrativo specifico che è la lettera, è duplice: da un lato Nico, il giovane protagonista imbarcatosi con il padre a soli 12 anni, alla volta dell’Argentina, sembra ricordare, ormai anziano ciò che ha vissuto durante la sua vita, e dall’altro la costante l’aspirazione al futuro. Il pubblico è invogliato all’ascolto, ricordando l’immagine dei nipotini che dimostrano grande aspettativa nei confronti dei racconti del nonno. Si potrebbe, dunque, immaginare che Nico sia ormai anziano, dal momento che il concetto fondamentale è appunto il ricordo. Il racconto intraprende una duplice strada temporale,  poiché Nico, interpretato dallo stesso Giuseppe Provinzano, racconta a ritroso la sua vita. Nello stesso momento  padre e figlio raccontano e si raccontano, attraverso le lettere inviate alla madre e moglie, auspicando al futuro. Anche la collocazione geografica è duplice ma confluisce su uno stesso palcoscencio. La madre che aspetta, il padre ed il figlio che partono. La Penelope nostrana degli inizi del Novecento aspetta il suo Ulisse, ma è Telemaco, stavolta, a fare le bizze. Metafora letteraria per collocare una storia anch’essa mediterranea che, al di là del concetto del “nostos”, non è altro che la storia comune di tantissime famiglie. La pretesa di questo spettacolo, infatti, non è quella di insegnare, di acculturare, di spiegare, di perdersi in concetti metaforici o metafisici, bensì unicamente di ricordare, raccontare ed emozionare. Al lume di candela, così come avviene spesso in scena, il senso profondo di questo racconto è il recupero della memoria. In effetti il pubblico risponde con prolungati ed accorati applausi, ed ancora una volta questo dimostra quanto lo spettatore sia desideroso di veder raccontate le proprie storie su un palcoscenico, attraverso una lingua che possa emozionare. Il racconto di VOLVER commuove il pubblico, nonostante sia presentato in lingua siciliana, ed in parte spagnola naturalmente, pur con l’utilizzo di un dialetto fortemente epurato e comprensibile da tutti gli spettatori. Il pubblico napoletano, e non solo, risponde, infatti, all’ilarità di alcuni momenti, pur non percependo del tutto alcune parole. Musica tradizionale siciliana, voce e chitarra dal vivo in scena, e l’immancabile  tango. Le musiche di due Paesi lontani si fondono e diventano elemento di integrazione razziale, culturale e sociale, come avviene frequentamente anche oggi. L’amore, i colpi di scena, la sensualità argentina e la conquista dell’uomo mediterraneo, la nostalgia, il ricordo, ma soprattutto la famiglia speculare, quella siciliana e quella argentina, ancora una volta rappresentate da un padre e da un figlio che si contendono il futuro, in assenza delle madri. Il ricordo e la nostalgia non devono seguire necessariamente un’unica direzione, cioè quella che guarda verso il Paese d’origine. Il pensiero è rivolto soprattutto a chi aspetta, a chi è lontano, in qualsiasi luogo esso si trovi, attraverso un discorso che alterna l’esperienza personale a quella universale. Gli elementi che costituiscono questa “narrazione scenica”, intesa come primo capitolo della Trilogia della Migrazione, sembrano confluire in un contenitore in cui la divisione in ruoli o in luoghi si alterna velocemente. Tutti i diversi personaggi vengono infatti interpretati da Simona Argentieri e da Maurizio Maiorana, mentre Giuseppe Provinzano rimane, e rimarrà ( tranne per un breve momento) il nostro Nico. Il ricordo vola subito ai film di Tornatore, non ultimo “Baarìa”, non tanto per i contenuti della storia narrata, ma soprattutto per l’ambientazione e per la specifica caratterizzazione dei personaggi e del plot narrativo. Il discorso non si apre mai ad una risata limpida ma piuttosto è velato da  una malinconia costante, da un sottile dolore latente che non riesce mai a dissolversi. Dopo vent’anni, il padre decide di ritornare in Sicilia poichè Mussolini ( Mussolino come lo chiamavano i Siciliani del tempo), ha promesso lavoro a tutti. Nico ha ormai 30 anni e quella “migrazione” citata dal titolo della trilogia non ha lo stesso peso e lo stesso significato del concetto di emigrazione. Si va in un altro luogo per migliorare le proprie condizioni di vita, economiche e sociali, ma il migrare può sottintendere anche un viaggio che non ha ritorno, che riprende, che finisce, che continua incessantemente, o addirittura un viaggio metaforico. Ricordando i cosiddetti “coloni” italiani in America, così definiti dai giornali dell’epoca, all’inizio del Novecento, coloro che non avevano nessuna intenzione di ritornare in Italia, perché richiamati a combattere durante la Prima Guerra Mondiale, ricordiamo anche Nico e la sua famiglia. Un viaggio nel tempo ma soprattutto nei luoghi, poiché la BABEL CREW rivolge una costante e  particolare attenzione agli odori – basti pensare alla cassetta di vero pesce che Nico cerca di vendere agli spettatori, nel foyer, prima dell’inizio dello spettacolo – ai suoni, alle voci, alle musiche, alla vista. Ci spostiamo velocemente dalla Sicilia all’Argentina, senza nessun cambio di scena. Quell’Italia rappresentata dagli spaghetti di stoffa tricolore nei piatti dei poveri commensali di questa famigla, quella Sicilia rappresentata dai due colori della bandiera della Trinacria che caratterizzano la cravatta del capofamiglia, quell’ingenuità e semplicità che spingevano i nostri connazionali a navigare per giorni e mesi alla ricerca di una vita migliore, quella miseria che univa i cuori e che faceva, paradossalmente, vivere meglio, tutto questo è VOLVER, ossia tornare. Noi lo interpretiamo come monito rivolto al pubblico. Torniamo a ricordare ma soprattutto a raccontare, con grande semplicità e attraverso grandi emozioni. E lasciamo il finale aperto alla curiosità degli spettatori.
Ancora un racconto legato al ricordo è quello che caratterizza PORTOBELLO NEVER DIES, una produzione di TEATRINO CONTROVERSO. Dopo il successo in stagione di LETIZIA FOREVER, ci eravamo ripromessi di seguire la drammaturgia di Rosario Palazzolo, che in questo spettacolo, come in quello precedente, utilizza la lingua siciliana per creare un’identificazione geografica specifica ma non indispensabile. Ossia, un microcosmo contenitore di verit universali che può essere collocato in qualsiasi Paese del mondo. Bisognerebbe  guardare questo spettacolo dalla fine all’inizio, proiettato a rovescio attraverso una moviola. Anche in LETIZIA FOREVER avevamo provato la stessa sensazione, ma in questo spettacolo l’impatto appare ferocemente sconcertante. Non parliamo né di scene macabre, né di scelte visive sperimentali, né di sussulti. Capire di aver (forse!) capito l’intero spettacolo al momento degli applausi, è davvero sconcertante. Il dubbio persiste nelle ore e nei giorni successivi ed è comune a numerosi spettatori: in effetti, ci si chiede quante volte uno spettacolo abbia spinto alla riflessione per così tanto tempo. Allora cerchiamo di ricostruire questo percorso a ritroso, come è giusto che sia, fornendo alcune indicazioni al lettore ma svelando ben poco. Infatti non sembra opportuno raccontare questo spettacolo nei minimi particolari, perché le parole potrebbero davvero complicare le idee ma soprattutto sciogliere dei nodi fondamentali, inficiandone il risultato visivo. In effetti il discorso appare lineare – dopo! - ma sopratuttto appare completamente diverso da ciò che lo spettatore ha pensato di vedere durante l’intero spettacolo. Geniale intuzione dell’autore, presente in scena, insieme a Francesco Gulizzi e a Salvatore Nocera ( quest’ultimo protagonista di LETIZIA FOREVER), che costruisce una narrazione con un senso ed una linearità coerenti, insitillando periodicamente, però, all’interno di questo percorso lineare, alcuni cortocircuiti narrativi e comportamentali. La ripetizione di alcuni passaggi,  di parole e frasi, che sembrano frastornare lo spettatore – a volte, infatti, esageratamente reiterati – servono a caratterizzare i personaggi in scena, i quali sembrano letteralmente bloccati all’interno del “fermo immagine”  di un matrimonio. Il ricordo spontaneo o ferocemente indotto si blocca ripetutamente attraverso un rewind psicologico che corrode colui che non ricorda o che ricorda a metà. All’interno di un ambiente serrato, in cui le porte e le finestre spariscono, ritroviamo le luci da discoteca e la musica anni ’80 che caratterizzano anche LETIZIA FOREVER. Le ambientazioni manicomiali, metafora della mente umana, sembrano persistere all’interno di questa drammaturgia, ma stavolta ci sbagliamo di grosso sull’identificazione del luogo. Tre personaggi in scena ricevono gli applausi, tre uomini in boxer e canottiera, tre letti di cui uno sembra sparito. Medicine, scatoli vuoti, forse immaginati, biancore e ambientazioni oniriche, deliri, urla, tremori, terrori, tutto questo si intereseca in una situazione di persistente attesa che in realtà sembra non condurre da nessuna parte. Qual è la connessione tra la lingua siciliana ed il titolo in inglese? Il riferimento alla nota strada londinese, Portobello Road, accenna brevemente e fugacemente alla storia di un emigrante siciliano che cerca fortuna in Inghilterra e torna con l’amore. Poche righe per spiegare una connessione logica che però ancora lascia dei dubbi allo spettatore sul concetto del “never dies”, non muore mai. In effetti sono proprio queste parole a costituire il nodo fondamentale dell’intero discorso poiché l’equazione never dies = ricordo è fondamentale. Qualcosa che “non muore mai” può essere un ricordo, ma anche un’ossessione, un pensiero che affiora e si dissolve. Ma arriviamo anche ad un ulteriore concetto: la morte. Come è evidente, il titolo è formato da tre parole che costituiscono i tre temi fondamentali dell’intero discorso: il luogo e la storia di fondo, il ricordo, la morte. E ci si chiede chi è morto in questa storia, se è davvero morto, e soprattutto quando e come muore. Non vorremmo svelare di più, ma la costruzione dell’intero testo drammaturgico è geniale. Non parliamo di denuncia vera e propria, di dogmatismo, di valori ipocriti, ma di dati di fatto. Un uomo racconta la sua storia quando non dovrebbe e non potrebbe raccontarla.  Ma non possiamo neanche dimenticare il leit motiv che lega i tre temi che costituiscono il titolo e l’intero discorso: il concetto di passaggio. La non identificazione univoca di un luogo, di un tempo, di un personaggio, uno e triplice, sembra riportare sulla scena non solo dei cortocircuiti visivi e mentali, ma rende visibile tutto ciò che vede e sente il protagonista. Estrapolazione e visualizzazione scenica della mente umana, la vera protagonista di tutto questo discorso. L’ironia pervade tutto il racconto, inserendo sketches, battute, gags, momenti di avanspettacolo, scenette televisive, e a tratti riproducendo anche alcuni momenti del teatro amatoriale popolare, con la ripetizione di battute e di gesti che fanno ridere il pubblico e che ne alimentano costantemente l’attenzione. Non si tratta, però, di un discorso meramente commerciale o indirizzato ad ottenere il consenso del pubblico, ma piuttosto di uno studio bilanciato basato su delicati equilibri drammaturgici. Non sveleremo mai la conclusione di uno spettacolo che forse conclusione non ha ma, ancora una volta, lasciamo alla curiosità del pubblico la possibiltà di osservare attentamente questo lavoro che identifica specificatamente lo stile creativo e drammaturgico di Rosario Palazzolo.
Concludiamo con un ennesimo ed ironico interrogativo, che ci poniamo alla fine di questo Festival 2015, ricordato senza grandi e particolari clamori: cosa ci aspetterà l’anno prossimo? NTFI “never dies”?