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C’è sempre un fascino particolare in uno spettacolo teatrale che nasce dalla volontà di confrontarsi seriamente con un testo poetico. Seriamente: ovvero non fermandosi alla semplice, per quanto magari elegante e gradevole, recitazione dei versi, ma entrando col corpo stesso dell’attore, o dell’ensemble, nella segreta e complessa dinamica del dispositivo poetico a cui si lavora (parole, suoni, sensi, connotatività, emozioni, ritmo, connessioni culturali e politiche), per destrutturarla e poi ricostruirla a partire da quelli che sono gli ingredienti fondamentali del teatro, ovvero, appunto, il corpo dell’attore e il ritmo dell’azione. È quanto vien fatto di pensare

di fronte a “Fuochi a mare per Vladimir Majakoskij”, lo spettacolo di e con Andrea Renzi, che è stato riproposto il 12 luglio scorso, sulla scena delle Orestiadi di Gibellina nell’ambito del focus sulla produzione di “Teatri Uniti” di Napoli. Il testo, su cui Renzi ha lavorato a lungo e che davvero ha fatto proprio, è il giovanile poemetto di Majakovskij “La nuvola in calzoni” del 1915. Cosa fare di questo poemetto in cui il giovane poeta futurista russo (22 anni) riversa la sua torrenziale e già matura, poetica? Farlo rivivere non soltanto nel (mai banale) profluvio verbale e metaforico che lo caratterizza, ma nell’energia rivoluzionaria, vulcanica, prometeica e nietzschiana che lo attraversa dall’interno e che sin dall’inizio, e poi di segmento in segmento, esplode come esplode i suoi colpi la Smith & Wesson a canna corta che accompagna l’attore in scena: e il medium attraverso cui tutto questo avviene, l’unico medium che può consentirlo, è il ritmo dello spettacolo che resta sempre teso e sostenuto fino allo stremo dell’interprete (Andrea Renzi è bravissimo a proporlo questo ritmo, a svelarlo al pubblico, a seguirlo con intelligenza, ad accompagnarlo da attore più che a incarnarlo magari dando vita a un personaggio che in ogni caso sarebbe apparso più povero dell’intima ricchezza di questo poemetto) e del pubblico stesso che da quell’energia, più che dalla continua meraviglia delle parole e delle metafore, è rapito, tenuto in pugno, battuto. È la rivoluzione la prospettiva a cui ci si volge e ci si abbandona con furiosa e persino suicida giovanile determinazione: la rivoluzione prima della rivoluzione d’ottobre, la rivoluzione come dimensione liberante, salvifica e vitale capace di spazzar via ogni intollerabile chiusura borghese, ogni filisteismo, ogni palpito d’ amore che non sia anche scuotimento carnale, ogni tiepido misticismo, ogni profezia che non sia rivoluzionaria. Notevole in questo contesto appare infine la tessitura sonora di Daghi Rondanini che, quasi come un oggetto scenico, resta laterale all’esplosione verbale eppure respira col respiro stesso dell’intero spettacolo.

di e con Andrea Renzi
luci Pasquale Mari
suono Daghi Rondanini
produzione Teatri Uniti (Napoli)

foto di Sara Carnati