“’ O stabiliment”: difficile riprodurre con la scrittura la pronuncia tipica delle vocali tarantine ma questa è l’invocazione che il giovane protagonista ripete all’inizio dello spettacolo e sarà l’unica parola che pronuncerà in dialetto.” ’O stabiliment”, ossia lo stabilimento ILVA di Taranto, per due sere consecutive si trasferisce in Campania. L’ex stabilimento ILVA di Bagnoli, in provincia di Napoli, accoglie lo spettacolo scritto da Gaetano Colella, che ne è anche protagonista, e diretto da Enrico Messina. L’invocazione rivolta al mostro – divinità, pronunciata dall’attore Andrea Simonetti, apre la scena. L’accoglienza rivolta agli spettatori è caratterizzata da quella fetta di mare che un tempo vedeva nastri trasportatori, acciaio, materiali vari e navi caricate e scaricate, e che adesso, invece, sembra delineare elegantemente il profilo
di un’insenatura e di una spiaggetta, a cui fa compagnia ll’isola di Nisida e i bagliori della città, in lontananza. Questo spicchio di mare che adorna l’accogliente Circolo Nautico di Bagnoli vede alle spalle i fantasmi delle ciminiere del mostro e conserva, nelle sue profondità, i residui, i rumori, le immagini di una Napoli appena industrializzata, durante le grandi trasformazioni avvenute all’inizio del Novecento. Questa volta l’EFESTOVAL, il festival dei Campi Flegrei, sceglie l’ILVA di Bagnoli, inevitabile location che accomuna due grandi città portuali e commerciali, Napoli e Taranto. Proprio da Taranto proviene questo spettacolo, prodotto da CREST- TEATRI ABITATI, organizzazione artistica e culturale che ci ha spesso ospitati presso il Teatro Tatà, costruito e recuperato, all’interno del quartiere Tamburi di Taranto, esattamente ai piedi dell’ILVA. Prima di ritornare in questo stesso teatro tarantino, a fine settembre, raccontiamo la storia del figlio di una delle vittime di questo mostro, costretto, dopo una brillante laurea, a lavorare nello stesso luogo dove si è ammalato il padre. Il racconto, elemento che diventa colonna portante di tutti gli spettacoli presentati in questo Festival, e provenienti dalle regioni del Sud Italia, qui diventa denuncia. Se il debutto di CAPATOSTA – ossia” testa dura” – ha colpito profondamente il pubblico dello SartUp Festival di Taranto nel 2014, adesso deve affrontare non solo i ricordi e i racconti dei vecchi operai dell’ILVA di Bagnoli, ma anche un pubblico diverso e più ristretto. All’interno di un piccolo capannone adibito al deposito delle canoe e al lavoro di riparazione delle barche, il piccolo palcoscenico diventa ufficio, ma anche sala macchine, fornace, inferno di lamiere e fuoco, ossia l’interno dell’ILVA. Specificatamente collocato in un contesto geografico ben definito, e caratterizzato da argomenti facilmente identificabili, cioè le morti sul lavoro, l’inquinamento e i numerosi casi di morti per cancro verificatisi non solo a Taranto ma anche in provincia, questo spettacolo analizza anche il rapporto tra i due protagonisti, l’uno capo reparto dalla lingua tarantina, l’altro giovane e brillante laureato in ingegneria il cui padre è deceduto per un cancro, dopo anni di lavoro all’ILVA. Il Capo della giovane matricola, catapultata nell’inferno dello stabilimento, si dimostra subito cinico, insensibile, appare mostruosamente ironico, non si commuove più alla notizia della morte dei colleghi, sembra rassegnato e consapevole. L’ILVA fagocita la vita di queste persone che, costretti dalla miseria del Sud, chiudono gli occhi davanti alla morte e continuano a lavorare in queste condizioni proprio perché guadagnano Davanti all’assoluta mancanza di lavoro ciò che colpisce, e che accade realmente, è l’ omertà di alcuni operai, soprattutto di numerosi giovani, che davanti alla sicurezza di un lavoro retribuito preferiscono che lo stabilimento non chiuda mai, o di alcuni padri, i quali lavorano e muoiono all’ILVA semplicemente perché desiderano che i figli riescano a laurearsi e ad andare via. Il giovane operaio sembra instaurare un rapporto quasi filiale con il suo superiore che si rivela padre di famiglia e buon marito ma che sembra trattenuto dall’affezionarsi al nuovo arrivato. Tutte le aspirazioni descritte dal giovane, i valori, le lotte affrontate, si sgretolano in parole e teorie che vengono immediatamente e ripetutamente frantumate dal realismo cinico e dall’esperienza del suo Superiore. Vivere di ideali non sembra essere l’approccio corretto per lavorare dentro lo stabilimento. Il giovane, infatti, afferma ripetutamente che è necessario ormai considerare come vere e proprie morti sul lavoro anche i casi di malattia, come quella del padre, ma il suo accanirsi su questo argomento non sembra accendere una minima considerazione e commiserazione da parte del Capo Reparto. La volontà di cambiamento che è viva e ribolle nei gesti e nelle parole del giovane, apparentemente sopita all’inizio del racconto, si scontra, poi, con la routine a cui l’operaio adulto è costretto da anni. La ripetizione delle azioni, infatti, viene riprodotta in scena, simbolicamente, con una sorta di danza che ricorda i movimenti specifici dell’atto lavorativo e che riporta sul palcoscenico una vera e propria marionetta. L’umanità decade e l’uomo è comandato dal sistema. Il denaro e la morte sembrano muovere il tutto, ma al centro ci sono due vite: entrambe esprimono le proprie considerazioni, le proprie esigenze, i propri sogni. Ma tra i due personaggi si erge il muro invalicabile dell’immediata urgenza del lavoro che, da un lato, spinge a nuovi ideali, dall’altro rende remissivi ed ubbidienti. Non esiste bene e male in questi due personaggi, entrambi detengono la ragione ed è complesso per lo spettatore identificarsi, o meglio, schierarsi in uno di loro, se non per la differenza di età. “Capatosta” entrambi,- ma emergerà fortemente la volontà del giovane grazie ad un colpo di scena finale - essi sono il frutto di un modello omologatore che “svende” la morte in cambio del lavoro retribuito. Immagine simbolo di un’Italia allo sfacelo, questo spettacolo un anno fa coinvolse, al suo debutto, molti spettatori tarantini, fino alla commozione. A Napoli l’immagine dell’ILVA sembra il ricordo di un tempo che fu ed il pubblico appare, dunque, più rilassato e meno coinvolto di quello tarantino. Se a Taranto i rumori, i fumi e le luci dello “stabiliment” accolgono quotidianamente gli spettatori al teatro Tatà, a Napoli il rumore del mare copre il dolore di una grande ferita inflitta in passato, e ancora oggi viva, nel cuore del nostro Sud.
Foto di Gennaro Cimmino