In principio era The Beggar's Opera di John Gay, l’opera satirica scritta nel 1728. Ne seguirono molte di riscritture, da L’Opera da tre soldi di Brecht/Weil fino alla reinterpretazione di Dario Fo. Le chiamano riscritture, ma nella maggior parte dei casi si tratta di ripensamenti profondi, modifiche della struttura dei personaggi, dell’ambientazione, delle scene e della vis comica generale. A questa reinterpretazione non sfugge neppure DRAGPENNYOPERA, l'ultimo lavoro delle Nina's Drag Queens in scena al Teatro Elfo di Milano fino all’8 novembre. Tanti sono i motivi per cui questa versione ha grande pregio. Se in casi del genere Jackobson preferiva parlare di “traduzioni interlinguistiche”
perché intercorse tra codici linguistici diversi, ma anche di “traduzioni intersemiotiche” perché operanti tra codici semiotici alternativi, Nina’s Drag Queens pare aver operato tutto ciò all’ennesima potenza. Tanto per cominciare ha da tempo affinato la capacità di rileggere (rivoltare?) i classici della letteratura, come già accaduto con Il giardino delle Ciliegie. In secondo luogo la scelta di affidare alle Drag Queen la scena è pionieristico, almeno in Italia. Non si tratta della scena in sé, in cui della presenza drag pullula l’avanspettacolo nazionalpopolare, quanto piuttosto del riuscitissimo tentativo di rendere la Drag un’attrice a tutto tondo, drammatica e comica, surreale e grottesca con potenzialità che nessun attore potrebbe mai incarnare. La Drag diventa la nuova maschera greca, del teatro antico porta l’atto semplificatorio-sintetico da un lato e artisticamente straniante rispetto alla realtà dall’altro. Ne giova in modo particolare il teatro italiano, quello contemporaneo, così poco avvezzo al talento e alle doti attoriali negli spettacoli con drag queen, come se si debba trattare sempre e comunque di un’opera da tre soldi. In questo caso invece l’Opera da Tre Soldi acquisisce le maiuscole e si fa teatro, quello vero e costituito, che rilegge i classici e le reinterpretazioni degli stessi.
Così, la regia di Sax Nicosia – invero assai onirica e validamente evocativa – immagina una scena scarna che si riempie di cappi e forche. Essi trasmutano il loro significato di continuo in portalampada, portali di ingresso di bordelli, luoghi di banchetto e bagordo, sbarre luminose della prigione, in una fusione di spazi, situazioni, significati stratificata di livello. E non solo la scena è un continuo mutar di genere e forma, anche i personaggi sono di siffatta specie. Amore e tradimento vanno a braccetto, denaro e gratuità, dedizione cieca all’amore e morte inscenata. L’uomo, quello di cui sono tutte innamorate, latita. Proiezione dell’io femminile, immaginazione costruita nel cuore burrascoso di ciascuna, così è se vi pare, ma il colpo di teatro sta nel non mostracelo mai in carne e ossa. L’uomo, quello per cui tutte ucciderebbero e tradirebbero (lui), è evocato da un cappio che si aggira per la scena, di mano in mano. E’ il cappio della condanna a morte cui è destinato, ma è anche il cappio che gli stringono al collo le sue donne a suon di pretese, desideri e sogni.
Una nota a parte meritano gli attori. Alessio Calciolari (Lucy Lockit), Gianluca Di Lauro (Jenny Diver), Stefano Orlandi (Tigra Lockit), Lorenzo Piccolo (Norma Peachum), Ulisse Romanò (Polly Peachum) sono un concentrato di talento, convincenti attori, navigati caratteristi, abili nelle sterzate improvvise dal tragico al tragicomico come solo a una Drag si concede. Trucco e parrucco fanno il resto, ma non è da tutti farne un uso di questa levatura.
Foto Serena Serrani