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Homicide House, il thriller teatrale di Emanuele Aldrovandi (Premio Tondelli 2013) disegna un panorama surreale sulle nostre quotidiane paure ma anche sui vizi comuni a molti consumatori postmoderni che pur di avere l’ultimo modello del mercato, si indebitano fino al collo. C’è tensione, colpi di scena e sorprese che catturano l’attenzione dello spettatore. Fino alle estreme conseguenze. Chi sopravvive?  “La Casa degli omicidi è un meccanismo di sevizie psicologiche che ferisce e uccide con il ragionamento piuttosto che con le sole armi di tortura. Un’idea originale alla base della scrittura e un linguaggio disinvolto e agile nell’alternare isolati e funzionali monologhi a fulminanti e accesi dialoghi fanno del testo un riuscito e promettente esperimento”. (Motivazione del Premio) Il nucleo artistico del MaMiMò

(Luca Cattani, Cecilia Di Donato, Marco Maccieri, Valeria Perdonò) esalta la parola scenica netta e tagliante di Aldrovrandi. I MaMiMò lavorano insieme da diversi anni (progetto Pedagogia della Scena – Premio UBU 2013), mettendo al centro l’attore e la sua capacità di generare azione attraverso l’interazione collettiva in rapporto alla drammaturgia. Si vede sulla scena si vede nella regia di Marco Maccieri dove la gestualità predomina sul simbolismo teatrale. Un uomo qualunque, un “borghese piccolo piccolo”, semplice, ingenuo, innamorato della propria moglie si trova nella difficile situazione di dover ripagare, senza il giusto preavviso, un grosso debito. Mentre la moglie ignara delle disavventure e degli affanni economici del marito, organizza l’ennesima vacanza, il diabolico usuraio propone uno scambio al malcapitato: entrare nella Homicide House, una ipotetica casa dove chi vuole torturare, seviziare, uccidere e ha abbastanza soldi per permetterselo, paga una vittima e chi vuole suicidarsi riesce a rendere fruttuosa la propria morte. Ma chi è il vero assassino? Potrebbe essere Tacchi a Spillo archetipo femminile di una sensualità sadica. Lurex, unghie laccate e seni in evidenza.  Esattamente il contrario dell’altra figura femminile, la moglie ignara, un po’ superficiale, casalinga frustrata, turista ossessiva. Potrebbe essere anche il diabolico affarista...chi è il vero assassino chi punta l’arma o chi si nasconde dietro l’arma? Homicide House è un testo surreale e grottesco sui pericoli della nostra società. Esasperazione dell’estetica, narcisismo, turismo come valore “mentale psicologico” legato all’esplorazione, alla conoscenza e al consumo di un prodotto che diventa quasi alter ego; il risultato? Capovolgimento delle virtù dello spirito che viene associato al successo e alla propria affermazione sopra e verso gli altri. Le parole non scaldano più le cose sono le cose che condizionano le parole e la nostra vita. La coscienza non è più vigile ma persa dietro l’acquisto, l’urgenza del consumo dell’ultimo modello di telefonino sempre più accessoriato. Ecco nasce un nuovo vivere inquietante fatto di soli bisogni, e di nuovi bisogni Nella scatola bianca del palcoscenico i personaggi alternando monologhi e dialoghi agiscono come in un fumetto. Il testo è ben strutturato e logicamente nel suo impianto tiene sulla corda. Dal punto di vista della visione registica si può osare di più è un testo onirico che apre a ulteriori possibilità. Le scene di Antonio Panzuto, figura atipica all’interno del panorama teatrale italiano, pittore, scultore e artista, contribuiscono a creare uno scenario basato su pochi semplici oggetti che raccontano una loro storia: storie di piccole famiglie borghesi attaccate al possesso dell’oggetto unico, particolare, di lusso, alla moda. Precarietà piani inclinati macchine teatrali sonore, azionate a vista, oggetti scenici che si alzano e si abbassano contribuiscono a creare un senso di straniamento nello spettatore e costruiscono una drammaturgia dell’oggetto che diviene un ulteriore piano narrativo per raccontare le nostre realtà quotidiane a caccia di oggetti sempre più esclusivi. È per il possesso di oggetti che il nostro piccolo imprenditore si indebita. È vittima del mito di un benessere diffuso e crescente, del suo stesso desiderio di possesso. Anche la sua visione dell’amore, in realtà, è legata al bisogno di possedere. Ma l’amore non possiede né vorrebbe essere posseduto perché l'amore è sufficiente all’amore. Non lo dico io lo diceva qualche secolo fa  Khalil Gibran. Altri tempi, altri amori, altre storie... quelle di imprenditori che si suicidano perché vittime di cosche mafiose.

Milano Teatro Filodrammatici, 18 Novembre 2015