Stupisce molto favorevolmente questa drammaturgia che è una sorta di divagazione, “svagata” ma insieme profonda, sul tema della improvvisazione a teatro, improvvisazione che non è tale se non è organizzata su una scrittura scenica coerente, con riferimento anche alla sua più antica e profonda finalità, il rapporto cioè con il pubblico e la comunità che lo esprime a partire dall’ineludibile nodo della committenza che Sanguineti considerava imprescindibile. Stefano Massini, Paolo Rossi e Giampiero Solari la costruiscono a partire da un dato storico, il soggiorno di Molière a Versailles e i contraddittori rapporti con il Re Sole, ma riscrivendolo a partire dal suo più profondo portato allegorico e simbolico, e andando così consapevolmente ad impattare sulla natura e sul mistero del teatro e della recitazione nella sua più ampia valenza universale. Icastica al riguardo la metafora del
bicchiere di cristallo (l’attore) riempita di vino (il personaggio) e usata per tagliarsi le vene di un braccio (la persona) per mescolare sangue e vino e spargerlo sulle tavole del palcoscenico fino a rendere il tutto indistinguibile e inseparabile. Questo dunque il recitare?
Semplice il plot: il re chiede a Molière una nuova rappresentazione entro due ore, cambiando peraltro parere sul tema e sulla destinazione più volte.
È l’occasione di una riflessione sulla natura del teatro (e anche sulla vita dei teatranti se vogliamo) che dalla storia viene ribaltata sulla contemporaneità e sui non agevoli rapporti tra teatro e società, e dunque il potere, che questa nostra contemporaneità ripropone, come da sempre, all’apparenza irrisolti.
Paolo Rossi conduce così il discorso scenico mescolando immedesimazione e autobiografia, ironia e comicità, farsa e “quasi” tragedia e declinando felicemente la satira da cabaret nei ritmi di una commedia dell’arte ritrovata, una commedia dell’arte che, come ai tempi di Molière, si ripropone ancora una volta come motore di rinnovamento, come fosse la fonte di una continua auto-rigenerazione del teatrare moderno.
E ora come allora emerge, tra un lazzo e l’altro, tra un sorriso trattenuto e la risata piena, l’amarezza di un lavoro, quello dell’attore, che porta con sé le stimmate della morte, nella sua continua e inevitabile contingenza. Avanti un altro e il ciclo della natura, sempre diverso ma sempre uguale, può continuare.
È come se tra i due poli del “Misantropo” e del “Malato immaginario”, che sono l’occasione di questa improvvisazione a Versailles, scorresse l’energia stessa del teatro ad alimentare nuove occasioni per illuminare le tavole del palcoscenico.
Così i riferimenti al tempo che viviamo sorgono quasi spontaneamente dalla e nella trama drammaturgica e non sono mai, a mio avviso, occasioni o cabotinaggi per riempire il tempo che scorre in fondo scena ed attrarre l’applauso “facile”.
Un lavoro a sei mani che in certo senso ripropone, in un felice amalgama quasi si trattasse di un solo “capocomico” con tre teste, i tre modi indissolubili per essere “teatro”, la drammaturgia, la recitazione e la regia.
Bella la scrittura, dunque, efficace la regia che “costruisce” e organizza la spontaneità della improvvisazione, e infine misurata e malinconica, come nelle sue corde, la recitazione di un Paolo Rossi che trova e ricostruisce sorprendenti affinità e corrispondenze con il maestro di quattro secoli fa.
Con lui in scena, e tutti da citare per la bravura e l’efficacia, vi sono Lucia Vasini, Fulvio Falzarano, Mario Sala, Emanuele Dell’Aquila, Alex Orgiari, Stefano Bembi, Mariaberta Blasko, Riccardo Zini, Irene Villa, Karoline Comarella e Paolo Grossi. Alcuni di loro impegnati anche tra “I Virtuosi del Carso” che mescolano recitazione e performance musicali dal vivo.
Scene e costumi di Elisabetta Gabbioneta, canzoni originali di Gianmaria Testa, luci di Gigi Saccomandi.
Una pregevole produzione del Teatro Stabile di Bolzano in scena, tra le compagnie ospiti dello stabile genovese, al teatro Della Corte dal 9 al 14 febbraio. Un successo.