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Questo affascinante spettacolo, offerto dalla “Piccola Compagnia della Magnolia” al Teatro Sociale di Valenza lo scorso 12 febbraio, dimostra ancora una volta come l’adesione al testo, ove sincera e profonda, produca nella traslazione e nel transito drammaturgico in scena una liberazione di senso, quasi che ne venissero alla luce profonde connessioni e strutture significanti tali da provocare tra noi una più intima comunicazione. La drammaturgia ripropone in effetti, nella efficace traduzione di Giorgia Cerruti, l’adattamento di Antonio Diaz-Florian del “Theatre de l’Epée de Bois” di Parigi andato in scena la prima volta nel 1997. Propone dunque dell’ultima commedia di Molière una sorta di doppia riscrittura/travestimento a partire dall’intuizione di fondo che, nella rivisitazione contemporanea, si suggerisca un amalgama tra “commedia”

e dato esistenziale, quasi ribaltando sulla prima, e cercando in essa una giustificazione o un suggerimento, l’evento tragico (la morte di Molière stesso in scena) che come tutti sanno l’ha segnata.
È una intuizione che squaderna in scena il senso profondo di un testo e che così riesce ad andare oltre la contingenza storica per segnalarne, nell’allegoria e nella suggestione simbolica, la valenza universale, esistenziale o metafisica che si intenda.
Non solo o non tanto dunque le difficoltà di Jean Baptiste Poquelin capocomico con la monarchia e la corte di interessi, ceti e classi che la sostenevano e le davano forma, ma il problema stesso del teatro nel suo rapporto con la società e la storia, con la s minuscola e con la S maiuscola.
È significativo al riguardo che un tale processo di traslazione venga attuato, nella versione di Giorgia Cerruti e nella realizzazione di questa giovane ma già interessantissima compagnia, attraverso il recupero di modalità rappresentative che, richiamando le stilizzazioni e accentuazioni di tonalità tipiche della commedia dell’arte e poi della tradizione italiana del grande attore (a partire dal Morocchesi), ne ribaltano l’enfasi apparente in una sorta di sorta di “semplificazione” comunicativa dai toni post-moderni.
Questo riportare la tradizione oltre la contemporaneità, che sul piano rappresentativo e più direttamente teatrale, richiama e ripropone l’amalgama drammaturgico tra testo e vita dell’autore, è inoltre sottolineato dalla presenza degli attori tra il pubblico mentre questo comincia ad affollare la sala, una accoglienza che ricorda a noi e a loro che, nel qui e ora del teatro, siamo due lati dello stesso specchio e che, noi e loro, siamo il prodotto della stessa storia ed il portato della stessa società.
Gli attori, come disse a suo tempo Edoardo Sanguineti, e la loro parola stanno in scena sempre per conto di qualcun altro e questo qualcun altro è in primis il pubblico. Così accomiatarsi, come fa la Compagnia a fine spettacolo, diventa un modo di ricordarci che questo legame non dovrebbe finire oltre la porta di un teatro.
Un teatro che porta con sé singole esistenze e la vita in generale e, quando è sincero, ne scoperchia anche i lati oscuri, come quella medicina che nascosta dietro il greco ed il latino esercita il suo potere, per sé e per conto di altri. Molière non amava i medici, come non amava gli avvocati o il clero perché il suo teatro non amava le prevaricazioni e amava l’umanità anche nella sofferenza.
Così mentre sulla scena: <<i ridicoli medici dalle cupe berrette e i farmacisti con i clisteri proclamavano dottore il bachelierus Argan. “Mais, si maladia/Opinatria/Non vult se garire/Quid illi facere?”. E il bachelierus Molière strillava un’allegra risposta: “Clysterium donare/Postea seignare/Ensuita purgare”.>>
Tra le quinte, come scrive Bulgakov nella sua biografia di Molière, il compagno Baron invocò disperatamente un medico: <<Dove ti trascini?! Disgraziato? Dov’è il medico?>> e il servitore disse mortificato <<Signor de Baron, che posso fare? Nessun medico vuol venire dal signore de Molière! Nemmeno uno!>>.
In scena con Giorgia Cerruti, che cura anche la direzione d’attore, Davide Giglio, Camilla Sandri, Pierpaolo Congiu, Federica Carra e Luca Bisnengo. Ciascuno di essi, se lo spazio non fosse avaro, meriterebbe una notazione per la bravura nella mimica, nella dizione che mescola tonalità enfatiche ma sempre calibrate ed un sottovoce limpido che guida sulla scena, e infine nella gestione del corpo che asseconda, nel recupero dell’accademia, la sua rivalutazione e rivitalizzazione recitativa.
Assistenza alla regia di Graziella Lacagnina, Scenografia di David Léon e luci di Quique Pena, efficaci, ma una notazione specifica meritano le maschere realizzate da Claudia Martone e soprattutto i costumi ideati da Abel Alba e realizzati da Monica Vitello, Paola Bertello, Bruna e Luisa Accornero. Costumi ispirati all’epoca dei fatti ma che, come la drammaturgia, davano la strana sensazione di essere nostri contemporanei.
È come detto una coproduzione della “Piccola Compagnia della Magnolia” di Torino e del “Théatre de l’Epée del Bois-Cartoucherie de Vincennes” di Parigi con cui i giovani piemontesi collaborano proficuamente da anni, ormai nelle sue diverse versioni intorno alla duecentesima replica.
Nel bel teatro di Valenza il pubblico è stato numeroso in quell’unica recita (si è replicato il 13 in quel di Avigliana sede della compagnia) e ha applaudito a lungo.