È la riproposizione di un testo di Aldo Trionfo liberamente tratto dal famoso racconto di Alexandre Dumas, un’avventura scenica di ormai trent’anni fa che però nella sua ricollocazione contemporanea risponde a una domanda che, a mio avviso, va oltre le pur concrete e coerenti tematiche affrontate da Beppe Navello, che ne è l’ideatore e l’anima, nella sua articolata presentazione. Una domanda che forse non siamo più abituati a farci. La domanda di fondo è, infatti, quale sia la, o le, modalità più efficaci per analizzare e comprendere la realtà, cioè la vita intesa come esistenza singola e come mondo che ci circonda e si evolve. La risposta che questa avventura ci propone è che una di queste modalità può essere, al di là della stessa semantica, il “gioco” e quindi quel suo corollario narrativo che è la fiaba (in fondo il romanzo di avventura è una fiaba
per “quasi” adulti). Insieme fanno il teatro, il teatro che, come scrive lo stesso Navello, “non si attarda in analisi psicologiche, in approfondimenti formali, in lentezze estetizzanti ma deve catturare interesse con il ritmo, l’azione e la sorpresa.”
Tutto il resto tocca a noi, tocca noi comunità che del teatro si vuole finalmente riappropriare fino in fondo, per scoprirne gli intimi valori cognitivi ed anche, se vogliamo usare una parola molto desueta, educativi nel senso più pieno della parola, per capire insieme ed insieme, anche attraverso l’arte e lo sguardo estetico, crescere.
La scelta non è casuale poiché “I tre moschettieri” sono non solo un romanzo di avventura ma anche un romanzo di formazione, una sorta di educazione sentimentale ed esistenziale che, oltre la sua allegra e fantasiosa mascheratura, può accompagnare il transito verso una più consapevole maturità.
Un romanzo di avventura e di formazione che ricolloca con semplicità ma anche con più “chiarezza” valori sentimentali quali ad esempio la lealtà e l’amicizia e che la riscrittura drammaturgica rialloca in questa nostra contemporaneità opaca e liquida in cui, anche in questo campo, prevale quantomeno una certa confusione.
È una narrazione dunque che parla di un tempo lontano anche per descrivere il suo presente e con questo il nostro presente. Non dimentichiamo che sia Dumas padre che Dumas figlio, con i loro personaggi “storici di fantasia” diedero il destro a molta drammaturgia dell’ottocento per superare moduli recitativi irrigiditi e aprire le porte di una approfondimento e di una adesione psicologica che suggeriva già la modernità. Basterà andare alle plurime “Signora delle Camelie” di Eleonora Duse per rintracciare quel passaggio cui tanto deve la sapienza recitativa e anche l’evoluzione della drammaturgia italiana.
Tutto questo riguarda il testo, nella fedele ma immaginifica e soprattutto ironica riscrittura di Aldo Trionfo, ma riguarda anche la messa in scena “giocata” tutta sul ritmo, dei movimenti e della battute, che trasforma l’apparente naturalismo del contesto (siamo al centro della piazza del Louvre, storica reggia di Luigi XIII) e del recitare in alienante traslazione in un altrove che implica il tempo e lo spazio drammaturgico ed il ribaltamento nella fiaba e nel sogno. Una guida efficace e dalla mano ferma in cui si alternano suggestioni cinematografiche e anche televisive e che riesce a rivedere in farsa “seria” anche il tema della pubblicità e dello sponsor.
Il testo dunque, fedele nell’evoluzione narrativa ma capace di inserti spiazzanti fino alla comicità, come quello del padre di D’Artagnan che compare all’improvviso anche dal trono del Re dietro le azzurre e pesanti volute del suo mantello cinto di ermellino.
Ma ancor più la scrittura scenica che ci coinvolge come dagli spalti di uno stadio ovvero dai banchi di un parlamento un po’ ribelle, mentre macchine sceniche simili ai giochi di un bimbo trasportano avventurosi spadaccini, popolo e sovrani, adulti e bambini.
La storia la conosciamo tutti e questa prima puntata ci narra dell’arrivo di D’Artagnan a Parigi, del suo incontro/scontro con Athos, Porthos e Aramis, e prima ancora con Milady e i suoi feroci scherani, e si conclude con il Re che fa arruolare il guascone nei tre moschettieri. Le quaranta “pistole d’oro” donate dal re saranno ben spese nella migliore taverna di Parigi.
Infatti, come nelle migliori avventure, le puntate sono, trent’anni dopo, otto, erano dodici al Teatro Stabile dell’Aquila nel 1986, ciascuna diretta da un regista diverso ma con lo stesso cast che si alterna e lo stesso staff tecnico, acquartierati tutti per oltre 5 mesi al Teatro Astra di Torino, per la produzione, impegnativa ma veramente encomiabile e speriamo ripetibile della Fondazione Teatro Piemonte Europa in collaborazione con il Teatro Regio di Torino.
La prima puntata diretta, si sarà capito, dal bravo Beppe Navello, che, ove ce ne fosse bisogno, riconferma la qualità della sua direzione dopo “Il Trionfo del Dio Denaro”, ha esordito il 18 febbraio e sarà in scena fino al 24.
Ha visto impegnati in scena i tre+uno moschettieri di Luca Terracciano (D’Artagnan), Alberto Onofrietti (Athos), Diego Casalis (Porthos) e Matteo Romoli (Aramis). Con loro Sergio Troiano (il padre del guascone), Daria Pascal Attolini (Milady), Alessandro Meringolo (Rochefort), Andrea Romero (oste poco fedele), Stefano Moretti (Treville il capitano dei moschettieri del Re) e Gianluigi Pizzetti (il Re medesimo), gli altri restando ancora un po’ nell’ombra. Bravi tutti, efficaci allievi di maestri d’armi di un passato recente, dalla mimica vivace e dalla presenza talora rutilante, ma una citazione meritano i tre bambini (Beatrice e Filippo Rizzio e Lucrezia Sottile) che segnano una presenza drammaturgica inaspettata.
Non meno merita lo staff, dalle scene e costumi di Luigi Perego assistito da Luca Filaci, alle musiche di Germano Mazzocchetti eseguite in scena (con parrucca d’ordinanza) da Alessandro Panatteri, al progetto luci di Gigi Saccomandi. Collaboratori scenografo e costumista, rispettivamente Francesco Fassone e Augusta Tibaldeschi.
Questo inizio di avventura è stato, e non era scontato, un vero successo, con repliche sempre da tutto esaurito (e qualcuno rimasto fuori) ed entusiasmo, un entusiasmo di cui applausi anche a scena aperta e ripetute chiamate sul proscenio danno la giusta misura.
Una avventura che ha anche, mi si permetta, un lieve sapore di genovesità a partire dal suo autore, storico fondatore del Teatro della Tosse e per finire dai disegni di Lele Luzzati che fanno da fondale al video “Il Miele di Luxembourg” di Ottavio Cirio Zanetti che nel foyer anticipa la serata teatrale e che è una sorta di peripezia dei tre moschettieri nella mente e nei sogni di un bambino.
Allora appuntamento alla seconda puntata, già in preparazione, che sarà in scena sempre al teatro Astra di Torino dal 27 febbraio al 4 marzo, questa volta per la regia di Gigi Proietti.