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Walter Cerrotta, caprese, si è diplomato alla Scuola del Piccolo Teatro di Milano e ha studiato canto lirico presso il Conservatorio “San Pietro a Majella” di Napoli. Tra il 2003 e il 2008 collabora con il Teatro Elicantropo di Carlo Cerciello a Napoli. Il suo primo lavoro come regista è “Save the World”, scritto con Lisa Capaccioli; lo spettacolo ha debuttato al Napoli Teatro Festival nel giugno 2013. E’ attualmente insegnante per l’Associazione Culturale (S)Blocco5 a Bologna, fondata insieme a Yvonne Capece. Sarà prossimamente in scena qui a Milano al Teatro Sala Fontana con lo spettacolo: “La Monaca di Monza” di Giovanni Testori.


Da dove nasce l’idea di mettere in scena Testori?
Prima ancora del linguaggio, meraviglioso e colto, mi ha colpito lo spirito profondamente eversivo contenuto nella sua produzione letteraria: i personaggi di Testori anelano sempre alla libertà, desiderano seguire la propria natura, in un mondo che invece tenta costantemente di castrare l’espressione profonda di sé. L’orizzonte storico, lontano nel tempo, de “La Monaca di Monza” permette di leggere con chiarezza i termini di questo conflitto in realtà molto attuale: la battuta di Marianna de Leyva contro il padre “non hai avuto nessun pudore di distruggere il mio diritto di essere libera e di volere ciò che la mia natura mi chiedeva… “ è un grido che potrebbe essere urlato da molte persone che, ancora oggi, non vedono riconosciuto il loro diritto naturale di vivere liberamente la propria vita.

Come hai lavorato sull’autore?
Con profondo rispetto e ammirazione. Testori è uno dei più importanti intellettuali del Novecento: pittore, critico d’arte, poeta, scrittore, drammaturgo, regista, attore. Anche solo chiedere i diritti per mettere in scena un suo testo è stato psicologicamente difficile, ma ho incontrato l’entusiasmo e la stima di Alain Toubas che ha accolto e sorretto questo progetto con grande forza. Nello specifico de “La Monaca di Monza” si è cercato di non arginare la violenta emotività sprigionata in tutto il testo: le parole hanno una connotazione così pura e sanguigna allo stesso tempo, da divenire l’unico punto di partenza possibile intorno al quale costruire tutta la messinscena. Importante era non scavalcare il testo e al tempo stesso non esserne schiacciati, ma lasciarlo fluire quasi fosse un vero e proprio personaggio.

Quali sono le emozioni, le sensazioni che ti attraversano portando in scena “La Monaca di Monza”?
Ecco, soprattutto sono emozionato! Si tratta di un progetto totalmente nato dalla fantasia mia e di Yvonne Capece, che si è concretizzato in brevissimo tempo e ci ha dato enormi soddisfazioni: l’affetto e la commozione del pubblico alla fine dello spettacolo sono impagabili. Inoltre raccontare una storia come quella di Marianna de Leyva mi permette anche, come ho detto prima, di parlare a quell’oggi bigotto e moralista che, sentendosi indebitamente minacciato da scelte che non comprende, ritiene suo dovere intervenire per limitarle e reprimerle. È facile riconoscere i segni dell’oppressione quando sono lontani nel tempo: è la lente della Storia a permetterci di farlo. A chiunque oggi sembrerebbe assurdo obbligare una giovane alla vita monastica; mi auguro, quindi, che non servano centinaia di anni per riconoscere le forme di oppressione che oggi reprimono o inibiscono alcune delle nostre scelte.

Come hai lavorato sui personaggi?
L’unico vero personaggio è quello di Marianna de Leyva; Testori la presenta come una furia che non fa sconti a nessuno, nemmeno a sé stessa, per l’atroce condizione che ha vissuto, ma che difende con violenza blasfema le ragioni della carne, incomprensibili e lontane per un Dio immateriale. Gli altri personaggi sono illusioni, fantasmi che la aiutano a ripercorrere la sua sanguinosa vicenda, la tentano e la seducono e infine la imprigionano. Yvonne Capece interpreta la monaca, io tutti gli artefici della sua monacazione forzata, il suo amante Gianpaolo Osio e la conversa che ammazza, tagliandole la testa. Mi sono perso in questi ruoli, giocando ho cercato di renderli impalpabili, presenze isteriche e violente. Mi entusiasma e diverte molto interpretare più personaggi.

La regia è in comune con Yvonne Capece, raccontaci questa collaborazione.
Siamo una coppia, artistica. Ci conosciamo da 12 anni, abbiamo cominciato insieme a recitare e a formare il nostro gusto teatrale. Ci unisce la convinzione che l’arte, nel nostro specifico il teatro, debba essere qualcosa di pericoloso, di scomodo; siamo entrambi convinti che nello sviluppo della creatività e del senso critico ci sia il segreto del cambiamento, per un teatro complice ma audace, che punzecchi la coscienza per favorire una cultura coinvolgente e degna, che favorisca la condivisione: è una idea precisa che seguiamo con grande tenacia. Abbiamo fondato (S)Blocco5, una giovane associazione culturale che propone corsi di recitazione e laboratori tematici in cui c’è una costante ricerca di altre modalità di interazione tra attore e spettatore.

Hai studiato canto lirico, come la musica influenza la tua arte e le tue scelte artistiche?
L’opera lirica rappresenta per me l’idea di opera d’arte totale (per citare Wagner, che espresse questo concetto all’interno del suo saggio Arte e Rivoluzione); la musica mi inebria quando vado all’opera, che resta il mio primo amore. Certamente oggi ragiono molto a livello musicale nella costruzione di un lavoro artistico o anche nella preparazione della parte, ho molto orecchio e quello che faccio e creo mi deve “suonare” bene.  Lo studio della lirica, ad esempio, mi ha permesso di fare scelte musicali ne “La Monaca di Monza” molto precise: i brani, popolari o religiosi, sono tutti selezionati all’interno di un repertorio che va dal 1570 fino al 1630, periodo nel quale si svolsero i fatti storici. Sono musiche fantastiche, molto evocative ed emozionanti.

Un salto indietro. Hai studiato al Piccolo Teatro, che ricordo hai di quella esperienza e di Ronconi?
Totalizzante e faticosa, studiavamo molto, ma è stato un privilegio assoluto e mi sento davvero fortunato. Affetto e competizione viaggiavano insieme tra noi allievi, ma è sano così. La cosa più difficile è stata il dopo: doversi ricentrare, autonomizzare e capire quello che vuoi essere e cosa vuoi raccontare. Ronconi è stato un incontro incredibile, un maestro particolare: ognuno di noi si è portato a casa qualcosa di diverso; credo che, con una personalità sfaccettata come la sua, sia inevitabile. Io ho imparato a dubitare, a scegliere una strada nello studio e percorrerla senza essere sicuri della meta, per evitare di lasciarsi sfuggire le sorprese che possono arrivare. Sono del segno dei Pesci, come lui: il simbolo di questo segno è formato da due pesci legati fra loro ognuno dei quali nuota in direzione opposta; io cerco sempre di operare una scelta dopo aver vagliato tante possibilità, mi fa sentire aperto e pronto al cambiamento.