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La parola incarnata nella figura della donna è il fulcro di queste particolari drammaturgie firmate da Antonio Tarantino, autore che costruisce i due testi in questione ricordando  altre parole e altre donne, quelle nate dalla splendida penna di Sofocle ed Euripide. Inutile il confronto con il testo classico, sebbene sia fondamentale e preponderante, perché sembra banale sottolineare il rapporto tra due scritture nate in epoche diverse e con finalità completamente differenti, nonostante il legame tra la donna e la sua contemporaneità emerga anche all’interno della cultura greca del V secolo, periodo in cui vivono e scrivono i due drammaturghi greci. L’autore bolzanino riporta in scena Antigone e Medea, nomi reali o attribuiti, personaggi che rappresentano un’identità atavica, instillata nel DNA di tutte le donne di tutte le epoche, compresa la nostra. Antigone è una prostituta e non

diventa una prostituta: non stiamo, cioè, parlando di un adattamento contemporaneo della tragedia, bensì Tarantino coglie quell’immensa universalità dei testi classici per riportarla in scena sotto mentite spoglie. Le storie di queste due donne, la prostituta di memoria ruccelliana e moscatiana, e la donna dell’Est, ex deportata, che incontra, dopo aver ucciso i figli, il marito bugiardo ed inetto, recuperano stralci delle storie dolorose delle protagoniste classiche. La piccola Antigone dalla sindrome edipica si ritrova a parlare con un cliente-padre, o cliente paterno, sottolineando il suo essere “fratello” e “padre” di memoria sofoclea e pirandelliana. L’uomo inetto e silenzioso, quasi invisibile, diventa elemento necessario affinché queste donne vomitino il loro dolore, il loro pensiero, le loro storie, così come il valore delle eroine classiche si attua perché entra in relazione con lo stolto potere maschile. L’autore sceglie di portare in scena un linguaggio infantile, un italiano di livello medio – basso, attraverso un flusso inarrestabile di frasi che, soprattutto nel monologo-dialogo di Antigone, sono “cucite” insieme mediante la particella polivalente “che”, posta all’inizio di ogni periodo, connotando la parlata attraverso dialettismi e sfumature del linguaggio quotidiano permeato di regionalismi. Le sfumature dialettali, non solo quelle previste nel testo, emergono anche attraverso la tendenza all’accento barese, quello di Teresa Ludovico e di Vito Carbonara, in scena presso il teatro Elicantropo di Napoli dal 17 al 20 marzo. Lo storico Teatro Kismet di Bari arriva a Napoli, portando una scena apparentemente scarna, le donne sfatte, dilaniate e rassegnate di Antonio Tarantino. Ad interpretarle un’ottima attrice, come la Ludovico, che racconta al pubblico, dopo lo spettacolo, il suo incontro con questo autore, ma anche con lo splendido mondo del teatro internazionale, descrivendo le sue attività, il suo studio sul corpo e sulla parola, il suo particolare approccio nei confronti di queste donne. L’ambiente serrato della prostituta Antigone, ormai anziana e di grande esperienza, ricorda la grotta in cui avviene il suicidio della protagonista sofoclea, in nome degli affetti familiari e di un potere che è una tirannide, quella stessa che lega la prostituta a qualsiasi uomo ed al denaro, pur giocando la carta del possesso attraverso il sesso. Questo elemento è presente anche all’interno del racconto della donna dell’Est, costretta ad uccidere i propri figli, cioè i due sacchi che l’attrice trasporta in scena, peso costante sulle sue spalle, alzando lamenti funebri da prefica, inseriti ex novo attraverso una lunga preghiera in griko, dialetto tipico delle colonie pugliesi della Magna Grecia. Vito Carbonara lavora con Teresa Ludovico da ben vent’anni, reduce da un lontanissimo laboratorio che coinvolse persone affette da sindrome di Down o da ritardi nell’apprendimento. La presenza maschile, incarnata proprio da Carbonara, è cardine fondamentale, poiché spesso emerge dall’oscurità, è evidenziata dall’uso sapiente e pittorico delle luci di Vincent Longuemare, è seduta di spalle al pubblico, non parla ma mima i suoi gesti, diventa giullare negli intermezzi tra le due tragedie come un coro portatore di verità popolari. Il fiume di parole vomitato dalle protagoniste è possibile grazie al silenzio ottuso degli uomini con i quali esse si relazionano, durante un dialogo solitario o un monologo privato in cui l’elemento maschile ed il mondo esterno sono solo raccontati, evocati, ricordati, ma mai effettivamente reali. L’elemento “uomo” è affetto da invalidità – spesso si cita il pagamento della prostituta attraverso la pensione di invalidità dei suoi clienti -, l’uomo è gestito dalla moglie che accetta la mediazione della prostituta – Medea è strappata alla sua terra, come tante prostitute e poi sostituita da Giasone con la più giovane e altolocata figlia di Creonte -, l’uomo è un ex operaio del silurificio di Pola, che ha fatto credere di aver raggiunto una posizione importante in ambito militare – è il Giasone sconfitto o lo stolto Creonte che vede morire la sua famiglia. L’uomo gesticola, annuisce, non reagisce: ascolta la follia della donna imprigionata da ciò che fu. L’ironia pervade costantemente il testo ed i personaggi sembrano tratti dal circo e dalla macchietta, rendendo così ancor più intensa la tragicità voluta dalle parole degli autori greci e trasportata in ciò che siamo oggi. Le donne di un tempo urlano al pubblico e dimostrano di aver imparato a convivere con il disfacimento, come se la Medea dell’Est fosse stata costretta a diventare la prostituta Antigone, o viceversa. L’urlo disperato rivolto a quel Dio che non c’è più, dimostra la stessa consapevolezza della Medea classica, durante il discorso rivolto alle donne corinzie: anche la divinità ha smesso di giocare e di comandare sull’umanità, gli uomini non riescono ad interpretare né il ruolo di padri, né quello di figli, le donne non riescono a procreare, bensì uccidono i figli.

PICCOLA ANTIGONE E CARA MEDEA
Teatro Elicantropo Napoli
17-20 marzo 2016
Teatro Kismet OperA
presenta
Piccola Antigone e Cara Medea
due atti unici di Antonio Tarantino
con
Teresa Ludovico e Vito Carbonara
spazio e luci Vincent Longuemare
regia Teresa Ludovico