Con questo ultimo lavoro Massimo Munaro e il Teatro del Lemming tornano al nucleo centrale e fondante del loro teatro, un albero con radici che appoggiano sull’esistenza e affondano in profondità nel rapporto con il mito e con i movimenti drammaturgici che questo ha assunto a partire dal senso stesso della tragedia antica, mimesi e narrazione e, insieme, catarsi e liberazione. Un teatro dunque che è nella sua essenza ed essenzialità, più che conoscenza diretta e dialettica, una esperienza diretta e liberatoria e in questo altrettanto dialettica ma più profondamente cognitiva sia esteticamente che psicologicamente. Lo fanno, Munaro ed il Teatro del Lemming, ripristinando come nel suo DNA l’immersione dello spettatore, uno come nel lontano Edipo o pochi come in quest’ultimo caso, nel farsi stesso della drammaturgia di cui diventa parte e, in senso lato,
corresponsabile. Corresponsabile poiché, sotto la guida o meglio sulle tracce lasciate dal drammaturgo e dai suoi attori, arricchisce senso e contenuti profondi della drammaturgia stessa con materiale di pensieri ed immagini liberati dalla sua immaginazione prima e poi, al seguito di queste, dagli strati profondi della sua psiche.
Qui Munaro ed il Lemming si incamminano per il sentiero di Orfeo che nelle ovidiane metamorfosi ha trovato e ribadito l’eco della sua millenaria stratificazione, una stratificazione che però conserva al suo centro, con la perduta Euridice, il tema stesso dell’amore, di eros, fino a confluire anche tra i protagonisti della elaborazione platonica nel Simposio.
Amore come perdita, ribadisce estenuante il racconto antico, e quindi come lontananza, insuperabile anche per il tramite dell’arte, quindi in fondo amore come impossibilità o amore come assenza di amore ovvero incapacità di amore. Tutto questo possiamo credo, anche noi contemporanei, leggere in quella mitica narrazione.
Orfeo sul limite dell’Ade si volge nonostante il chiaro avvertimento degli Dei, forse rompendo volontariamente il tabù, ed Euridice che lo seguiva faticosamente si perde per sempre. Orfeo così può piangerne la mancanza fino alla consunzione, ovvero arrotolarsi, come in una coperta, in quella nostalgia che sembra costituire la vera essenza del suo eros.
Questo il mito nelle sue diverse versioni e nelle sue infinite suggestioni, ma se questo è eros il suo vero essere decanta e distilla solo nella memoria, una memoria che diventa costitutiva dunque, insieme all’amore, del nostro essere nel mondo.
Venti spettatori che si tengono per mano e penetrano nell’Ade, ciascuno però nel suo Ade personale, e si sdraiano su un grande letto rotondo e bianco quasi ad adagiarsi sul proprio cuscino psichico e volgono lo sguardo verso l’alto mentre Euridice “sospesa” canta la sua lontananza tra luci improvvise e specchi che rutilano di suoi doppi. Altrove Orfeo e la sua musica sembrano cantare e cavalcare impotenti quella impossibile distanza.
Negli spazi che si aprono la memoria singolare di ciascuno di noi corre a coprire l’orrore di ogni vuoto ed è come se venti drammaturgie si consumassero in quello spazio buio.
Il mito si fa rito e il rito, così, si fa drammaturgia, una drammaturgia in cui le parole si mescolano alla bellissima musica di Munaro, suoni chiari che distillano senso da parole sussurrate quasi in brusio ed immagini che si confondono in così diversi orizzonti percettivi.
Una catabasi che è un viaggio nella memoria, così la definisce Massimo Munaro nel foglio di sala, una memoria collettiva, quella del mito immortale che incista da tempi immemori ogni energia percettiva e cognitiva dell’umano, ed una memoria singolare che da quelle prende la via per l’approdo in ogni soggettiva esistenza. Una esperienza nel suo senso proprio, dunque un antidoto estetico alla dimenticanza e all’oblio che è perdita di noi stessi.
In scena, anzi sospesa tra la scena e l’orizzonte della nostra psiche, una bravissima Chiara Elisa Rossini e in quello stesso orizzonte, in cui inevitabilmente confluiscono anche elementi biografici ed autobiografici, Massimo Munaro che quasi la evoca su quelle sue bellissime musiche scagliate a riempire il vuoto che sembra assediarci.
Un bellissimo spettacolo che la regia dello stesso Munaro conduce con mano ferma ben coadiuvato dall’assistenza tecnica di Alessio Papa e dalle scenografie costruite da Luigi Troncon. Un ritorno ed insieme un nuovo passo avanti.
Alle Officine Caos di Torino, due repliche, la sera del 19 marzo.