Osservando attentamente questo spettacolo, torna alla memoria un altro prodotto artistico, analizzato nel lontano 2008, quando, al Centro Zo di Catania, andava in scena “Come spiegare la storia del Comunismo ai malati di mente”, autore Matei Visniec, regia di Gianpiero Borgia. Testo e contesto assolutamente lontani da quelli in scena presso l’ex Asilo Filangieri, luogo in cui nasce questo lavoro, segnalato speciale al Premio Scenario 2015, finalmente in scena a Napoli nell’unica data del 17 marzo, con il titolo “Pisci ’e paranza”, autore e regista Mario De Masi. Perché, quindi, ricordare lo spettacolo catanese tratto da Visniec? Perché di matti parliamo: da un lato quelli che, nello spettacolo del 2008, osservavano la società attraverso le grate di prigioni sotterranee, isolati dal mondo intero perché considerati folli, ma in realtà gli unici personaggi realmente
consapevoli di ciò che avveniva. Dall’altro, sul palcoscenico napoletano, sale invece un folle inedito, accompagnato da un gruppo di personaggi tipizzati, che risulteranno, in conclusione, i veri matti, cioè coloro che non comprenderanno. Ancora una volta un luogo/non luogo, stavolta non sotterraneo ma posto in superficie, nonostante sia identificato attraverso una linea di confine, quella tra realtà e irrealtà, tra città e periferia, tra passato e futuro, cioè la semplice fermata di un autobus. Emblema dell’attesa, metaforica e teatrale, questo ridotto perimetro metropolitano diventa palcoscenico per raccontare delle storie. Nonostante alcuni elementi, inseriti all’interno del racconto, possano apparire facilmente riconoscibili, ciò che caratterizza positivamente l’intero spettacolo è sicuramente l’originalità della messinscena, ossia il modo assolutamente inedito di raccontare una contemporaneità che ormai calca spesso le tavole del palcoscenico e che potrebbe stancare il pubblico. Ciò che è evidente, inoltre, all’interno di quest’analisi della società, ironica e dolorosa, è l’inserimento di numerosi elementi legati alla grande storia del teatro napoletano, dai riferimenti ad Eduardo, alla farsa, a Petito, a Viviani, senza mai banalizzare il richiamo al passato. Lo spettacolo appare, dunque, un contenitore ben costruito, attraverso cui il discorso è diretto ad un pubblico divertito, ma consapevole dell’epilogo tragico. Due gruppi di personaggi: una giovane coppia di sposini che dalla “campagna” cerca lavoro in città, ed un trio metropolitano, formato da una coppia di fidanzati in compagnia del fratello di lei, ragazzo con ritardo mentale, inquilini di una fermata degli autobus, nella periferia della città napoletana. Due aspetti della generazione italiana “20-30” che confluiscono in un unico baratro. Due strade divergenti, l’una rivolta alla speranza di una famiglia e di un lavoro, l’altra alla sopravvivenza senza grandi attese. Gli elementi che uniscono le due “fazioni” sono appunto l’attesa, seppur con obiettivi diversi, le parole ed il vino. Le parole vomitate continuamente, spesso costruite attraverso abili sketches, permettono una tessitura testuale che gioca spesso sull’improvvisazione. Appare evidente, a proposito, l’assoluto affiatamento dei cinque giovani attori - Andrea Avagliano, Serena Lauro, Fiorenzo Madonna, Rossella Miscino, Luca Sangiovanni -, perfettamente omogenei, pur nelle loro specifiche differenze e caratterizzazioni. La compagnia, infatti, dimostra un’esperienza scenica e attoriale di grande valore; gli attori non lasciano spazio a cadute, vuoti o rallentamenti. Tutto inizia con una corsa in circolo, attraverso cui i singoli personaggi intraprendono direzioni differenti, ma legati da un punto concentrico che li fa ruotare insieme, allo stesso ritmo. Come i “pisci ’e paranza”, i pesciolini da frittura, che girano attorno ad un tozzo di pane, sbocconcellato dagli stessi attori, all’inizio dello spettacolo, il grande acquario-metafora, partendo da un microcosmo napoletano, portatore di valori universali, riduce la giovane società italiana a piccoli pesci di poco valore che abboccano a qualsiasi mollica. Anche il linguaggio proviene dall’ambito napoletano, con un attento uso dei modi di dire – all’interno di alcune battute è inserita la spiegazione dei passaggi dialettali più difficili -, oltre allo studio delle differenze tra l’accento del giovane proveniente dalla campagna, ’o cafone, e quello dei giovani di città e di periferia, evidenziando i substrati ed i livelli linguistici e culturali. Ancora una volta il rapporto tra padri e figli si materializza in scena attraverso la nuova generazione che prova a procreare. La coppia di sposini è, infatti, in dolce attesa e proprio loro rifiutano di bere il vino dell’oblio. Quel vino che fa ridere, ballare, dimenticare i problemi, diventa la droga della sopravvivenza. La donna incinta vuole bere ma le è vietato, fino a quando il pensiero disperato di una voglia su una parte del corpo del nascituro la spinge a bere a tutti i costi, ossia la paura di lasciare traccia nel futuro. Questo spettacolo supera il banale racconto della descrizione della mancanza di lavoro, della miseria, delle problematiche giovanili. Il testo riesce a descrivere, attraverso coloriture appropriate, il senso di mancanza, di perdita d’orientamento, di affanno della società. Il giovane dal ritardo mentale vuole andare via, ma viene riportato indietro e zittito ripetutamente. La quarta parete del palcoscenico diventa il baratro da oltrepassare per cambiare vita, ma ciò non avverrà. La tragedia si compie, dopo che l’ebbrezza del vino trasforma i personaggi in Baccanti metaforiche, che divorano le loro vite ed il loro futuro. Il pianto di morte incita il movimento in circolo che riprende fino alla fine. La vittima sacrificale è, ovviamente, il matto ed il più giovane. Colui che aveva capito tutto.
PISCI ’E PARANZA
Ex Asilo Filangieri Napoli
17 marzo 2016
progetto e regia di Mario De Masi
con Andrea Avagliano, Serena Lauro, Fiorenzo Madonna, Rossella Miscino, Luca Sangiovanni
organizzazione e tecnica Gaetano Battista