Incrociare gli spettacoli della Compagnia Scimone Sframeli è, in un certo senso, come intercettare un viaggio ad un suo snodo sorprendentemente sempre essenziale, un viaggio che si dipana come uno sguardo doppio e bifronte, al pari dell’antico dio romano, uno sguardo dal dentro al fuori e inevitabilmente dal fuori al dentro. Ancora di più, se il più è conseguenza di questo loro proseguire tra noi, con questo ultimo spettacolo che li conferma tra le realtà più importanti della contemporanea drammaturgia italiana. Lo spettacolo, che esordì a Messina nel novembre scorso e in quella occasione fu già oggetto della bella recensione del nostro Paolo Randazzo, è ora in tournée quasi a risalire l’Italia, quell’Italia confusa e anche sofferente dei nostri giorni. L’ho incontrato nella sua tappa nella livornese Rosignano Solvay, il 30 aprile, e credo meriti queste brevi considerazioni.
Spiro Scimone compone questa sua ottava drammaturgia sotto il suo consueto segno del grottesco ma, stavolta più di altre, appare un grottesco che guida una progressiva lontananza, quasi uno sguardo su sé stesso e su noi stessi, dalle contingenze sociali e anche esistenziali che appaiono, entrambe, come risucchiate in un altrove in cui siamo dentro ma che andiamo, inesorabilmente ed inevitabilmente, perdendo.
Il titolo, ed il suo oggetto, è l’amore, ma qui è la morte il vero discrimine, la morte nel suo valore di atemporalità di fronte alla quale il sentimento si può finalmente spogliare di ogni rigidità, paura o compromesso, delle maschere sociali e delle conseguenti catene psicologiche, per mostrarsi nella sua forza intima, nella sua essenziale verità e quindi nella sua capacità di liberare la conoscenza di sé e la relazione con l’altro.
Come nelle corde di Scimone e anche di Francesco Sframeli, che qui cura la sua quarta regia, il contesto è sempre molto concreto, siamo in un cimitero, ma è un contesto che fugge ogni velleitarismo naturalista ed insieme ogni astrazione “surrealista”, così da creare il paradosso di una drammaturgia, di un teatro di narrazione, che riesce a porsi oltre l’assurdo, ante o post poco importa.
Un cimitero dunque e due coppie, un vecchietto ed una vecchietta ed un pompiere con il suo comandante, due coppie, una consueta ed una omosessuale, proprio ad indicare linguisticamente che l’oggetto della narrazione non è il come l’amore si organizza, ma l’amore stesso come sentimento sul limite tra la vita e la morte, sul confine attraversando il quale sembra ritrovare finalmente quello che si era inutilmente cercato.
Un limite che i protagonisti stanno attraversando, o forse hanno già attraversato, guidati dal ricordo dei loro vuoti, delle loro mancanze e smemoratezze ma anche delle loro conquiste, che sotto il bianco sudario steso sulla loro tomba trovano inspiegabilmente l’impossibile armonia.
Amore dunque come segno di congiunzione, come vascello che attraversa, come richiamo dell’uno e dell’altro oltre il confine ultimo, un segno che dalla morte richiama prepotentemente la vita, e viceversa come ricorda Shakespeare nel 64° sonetto: “Vedendo il vile tempo sfigurare/le alte ricchezze dell’antichità,/e le torri superbe rovinare/e il resistente bronzo che si sfa,/o l’affamato oceano che sbaraglia/il regno della costa, e poi vedendo/la terra che rivince la battaglia,/in un reciproco avendo e perdendo,/vedendo le alternanze di natura/e la natura stessa alla malora,/mi ha ricordato, una tale sciagura,/che il Tempo rapirà chi m’innamora./pensare questo è morte: è fare pianto/di avere, chi noi perderemo, accanto.
Una drammaturgia che si dispone al suo passaggio in scena a partire da un testo ritmico ricco di interiezioni e in cui le alternanze di tono, dall’assertivo all’interrogativo, sono assecondate da una trama accurata di ripetizioni che, come il battito ritmico e ripetuto del minatore, scavano in profondità, ricercano e infine recuperano il senso della narrazione.
Con Spiro Scimone, dalla recitazione stupita e distaccata, e Francesco Sframeli, che usa il suo corpo e la sua mimica quasi come un pentagramma, sono in scena e altrettanto bravi Giulia Weber e Gianluca Cesale capaci di assecondare e anche stimolare, per così dire, l’ancoraggio scenico della drammaturgia.
La scena, coerentemente realista e metaforica insieme, è di Lino Fiorito che, illuminate da fantasmatiche presenze, costruisce due tombe/giaciglio che trasmutano in funebre talamo nunziale, intorno alle quali rotea il carrello/camion dei pompieri, una bellissima invenzione scenica, questa, che dello spettacolo sottolinea l’effetto di straniamento.
Ha collaborato alla produzione, segno dell’orizzonte internazionale che va meritatamente acquisendo la compagnia, il Théatre Garonne di Tolosa. Una nuova tappa dunque che della ricerca di Scimone e Sframeli conferma la intensità emotiva e la profondità metafisica.