Breslavia, Breslau, Wroclaw, città che nei dieci secoli che attestano la sua esistenza ha cambiato più e più volte popolazioni e stili di vita, culture e orizzonti, religioni e dinastie, è diventata per questo una sorta di idiomatica metafora dell’Europa di cui i sette nomi che l’hanno accompagnata sono il segno più immediato e caratterizzante. Solo per questo, anche dimenticando la ricchezza del suo contemporaneo tessuto culturale di cui la dinamica Università è alimento, ha meritato di essere scelta come capitale europea della cultura 2016. Anche il teatro, come noto, ha un riferimento fondamentale che riguarda questa città polacca, per parecchi anni sede del Teatr Laboratorium di Jerzy Grotowski prima
che questi si trasferisse definitivamente in occidente. Qui, tra l’altro, nel 1965 vi fu la prima rappresentazione di quel “Principe costante” che aprì una rivoluzione nel teatro del 900.
Una metafora dell’Europa che non riguarda però solo quell’ampia parte orientale del continente di cui è centro simbolico, ma anche e profondamente la sua parte occidentale e specificatamente quella mediterranea.
È stato questo l’oggetto, appunto “Breslavia/Bassa Slesia e la cultura mediterranea”, di un interessantissimo convegno promosso dal Dipartimento di Lingue e Letterature Romanze dell’Università di Wroclaw tenutosi l’8 e il 9 giugno ed in cui il teatro ha avuto un ruolo non secondario, a partire dalla grotowskiana rilettura contemporanea di quel capolavoro di Calderon de la Barca, tradotto dal poeta polacco Slovacki già a metà dell’ottocento.
Merito anche del comitato organizzativo costituito da Justyna Lukaszewicz, Daniel Slapek, Magdalena Krzyzostaniak e Katarzyna Biernacka-Licznar.
Per questo è stato, a mio avviso, coerente anticipare le sessioni di studio con la messa in scena il giorno 7 di un altro capolavoro drammaturgico mediterraneo, “La vedova scaltra” scherzo goldoniano recitato dagli studenti di quello stesso dipartimento organizzati e “diretti” dalle professoresse Justyna Lukaszewicz e Ewa Warmuz, negli splendidi spazi dell’Oratorium Marianum in cui un fiammeggiante barocco italiano illumina la sede storica dell’Università.
Una rilettura ovviamente semplice, con inevitabili ingenuità, caratterizzata però dalla singolare scelta di duplicare specularmente la messa in scena, anche in alcuni dei suoi personaggi, che è in effetti recitata per metà in italiano e per metà in francese.
Scelta forse obbligata ma che ha dato interesse allo spettacolo, mostrando, come di rado accade, che la lingua attraverso la quale la messa in scena si esprime non è, come si crede comunemente, un elemento neutrale, ma incide sul senso stesso della messa in scena indirizzandone, talora in modo singolare e innovativo, contenuti significativi e finalità espressive.
Chi ha ideato lo spettacolo e i giovani che l’hanno portato in scena meritano anche per questo molti complimenti.