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La Piccola Compagnia della Magnolia prosegue il suo interessante percorso proponendo in prima nazionale, nell’ambito del Festival delle Colline Torinesi, la seconda tappa del suo progetto “Bio-grafie” che segue  “Zelda”. Forse non poteva esserci luogo e tempo migliore di un Festival organizzato sotto il segno di una domanda, se vogliamo, complessa e conturbante (L’identità è un genere?) per l’esordio di questo spettacolo, altrettanto complesso e conturbante, che di quella domanda coglie ed esplora, nel segno del teatro autentico, entrambi i territori sconfinati. Il soggetto è famoso e a tutti noto, oggetto sia di trasposizioni cinematografiche che di inchieste giornalistiche (attente o pruriginose che siano state), e pertanto non mi soffermerò sui suoi contorni e connotati storici e giudiziari. Questo perché, io credo, lo spettacolo della Magnolia, pur nato da

lunga gestazione proprio in quell’alveo di cui ha rispettato in piena onestà lo sviluppo e le singole situazioni, di altro voleva parlare, di un altro lì nascosto ma che il teatro può disvelare e rendere percepibile nell’intimità di ciascuno di noi.
È un percorso complicato e complesso ma insieme, a mio parere, trasparente quello che la drammaturgia compie dentro quella “strana” storia, un percorso che porta dentro di sé ed espone limpidamente nel percorso scenico infinite suggestioni, nell’immediato agganciate nella antica commistione tra teatro e travestimento, nel teatro cioè come luogo in cui il travestimento assume la sua realtà.
Bellissimo l’esordio con la carrellata di foto su notissimi volti del cinema e del teatro durante il trucco e dentro il trucco stesso che apre la drammaturgia, e illuminante la ripresa della pucciniana Butterfly che, dati i tempi assai diversi, custodiva gelosamente dentro di sé, come in uno scrigno, innumerevoli segreti.
Ma bellissima anche la scena del ballo durante la quale Shi Pei Pu si spoglia del suo travestimento da uomo (quale è) per trasformarsi come una farfalla nella donna (quale non è) che ha immaginato o forse creduto di essere, quella donna amata come in un sogno lungo vent’anni da Bernard Boursicot.
“Io sono un uomo che ha amato una donna creata da un uomo; tutto il resto non ha senso, non è niente” ha affermato Boursicot medesimo, che la Compagnia ha rintracciato, a lungo intervistato e che era presente in sala, salendo poi sul palcoscenico a fine spettacolo.
Ecco così che tutto precipita e si trasfigura nel segno del teatro, quasi che quella storia non fosse un sogno o una colpevole illusione ma bensì una costruzione drammaturgica in cui la verità si mescola alla finzione, o meglio nasce dentro quella stessa finzione, in un paradosso che si ripete nel come sé di ogni rappresentazione.
Ma il paradosso è ancora più ampio, perché la drammaturgia non prescinde dalla realtà ma si costruisce da essa ed il suo peso si impadronisce talvolta del passo degli attori. Così nella finzione scenica emergono come lacerti mai dimenticati la sofferenza interiore e le pulsioni inconsce agite inconsapevolmente, quelle stesse pulsioni che talora o spesso si impadroniscono anche di noi e ci determinano negandoci quella libertà disperatamente cercata in quel sogno e in quella illusione divenuta colpevole (o forse cercata anche nel teatro?).
Risvolti di realtà e profondità psicologica, di derive sociali tra rifiuto e falsa accettazione, di sguardi pruriginosi, di verità giudiziarie che sono più “finte” della finzione, che impregnano inevitabilmente la drammaturgia che sopra di esse cerca di slanciarsi, riscattandole.
Non ultimo la fatica di fronteggiare un argomento difficile anche perché di attualità stringente che nella società e anche nella politica si dibatte tra ritardi e la gabbia del prevalente politically correct.
Su tali questioni, che qui non è il caso di approfondire, ognuno prenderà la sua posizione, ma val la pena di constatare come il pubblico della prima sia stato trascinato, non solo nel segno della ragione ma anche e soprattutto in quello dell’emozione e talora della passione, e coinvolto da questo bellissimo spettacolo che non dimentica il distacco dell’ironia, un’ironia che ci difende dalla forza e anche dall’asprezza dei sentimenti, come difende Boursicot dalla sua caduta, e consente ad ognuno una chiave singolare per conoscere.
Perché “1983 Butterfly” non dimentica e non fa dimenticare le catene che maschere sociali e comportamenti indotti dal profondo impongono ai nostri desideri e alle nostre azioni, ma sembra cercare attraverso il teatro quella autenticità che, nonostante tutto, quegli stessi desideri e quelle stesse azioni qualche volta esprimono, una autenticità paradossalmente presente nella stessa storia di Bernard Boursicot e di Shi Pei Pu.
Una ulteriore ottima prova drammaturgica  e registica di Giorgia Cerruti, che la interpreta “bravamente” (alla francese) insieme a Davide Giglio, dalla maturità eccellente, nel segno anche qui del rimescolamento e del travestimento infine svelato ma soprattutto ricondotto, nella lotta finale nell’ombra tra i due, nel profondo di noi stessi in cui inevitabilmente si battono e dibattono pulsioni contraddittorie che ci sforziamo di elaborare non sempre con successso.
Segnaliamo l’assistenza alla regia di Cleonice Fecit, la bella scenografia con luci e video di Lucio Diana ed i costumi molto ben ideati da Gaia Paciello e Atelier Pcm. Il 17 giugno alle Fonderie Teatrali Limone di Moncalieri.
Un’ultima  notazione sul “Festival delle Colline Torinesi” che ha co-prodotto ed ospitato la drammaturgia. Diretto da Sergio Ariotti con la collaborazione organizzativa e per la comunicazione di Isabella Lagattola, ha dimostrato anche in questa edizione, che volge al termine, una rimarchevole attenzione per i fenomeni del nostro tempo soprattutto nella e per la loro capacità di trascenderlo ed insieme un occhio esperto e sempre attento per quel teatro che studia e ricerca, talora con fatica, si sviluppa e cresce dietro le luci dei circuiti istituzionali.