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Il problema che pone al pubblico “Almanacco siciliano”, il nuovo spettacolo di e con Vincenzo Pirrotta costruito su una rielaborazione di un testo (del ’97) di Roberto Alajmo, non è “se” è giusto ricordarsi e parlare ancora oggi delle tantissime morti di mafia a Palermo e in Sicilia, quanto piuttosto di “come” è necessario continuare a parlarne. La memoria del male è infatti indiscutibilmente un dovere di civiltà e a maggior ragione se si è consapevoli che il male di cui ci si vuol ricordare è ancora vivo ed è, magari indebolito o forse solo in forme più silenziose ma anche più efficaci, operante tra noi. Però è anche vero che se si vuol parlare di mafia, di morti ammazzati dalla mafia, oggi non si può fare a meno anche di ricordare che la lotta alla mafia è stata troppe volte utilizzata per coprire altre infamie anch’esse mafiose o per aiutare qualche miserabile carriera politica o professionale. È

deprimente ma è così: questo è il contesto. Questo è il contesto e non si può ignorarlo né aggirarlo: occorre trovare forme nuove per esprimere il senso profondo dell’opposizione civile e politica alla mafia e alla cultura mafiosa. Lo spettacolo di cui scriviamo ha debuttato nella severa cornice del Piazzale Abatelli dello “Steri” di Palermo, dal 29 giugno al 3 luglio. In scena, oltre allo stesso Pirrotta, ci sono Elisa Lucarelli e Cinzia Maccagnano e i Fratelli Mancuso che eseguono i loro pezzi dal vivo in scena; le scenografie sono di Claudio La Fata, le luci di Nino Annaloro, le musiche sono di Marco Betta. Come parlare oggi delle morti di mafia? Come descriverla senza scadere nella pornografia di narrazioni colpevolmente vuote di responsabilità e senso politico? Pirrotta ha provato a lavorare sulla forma, sull’autenticità del suo darsi come linguaggio, ha sporcato di sangue e carne una scena tutta bianca, ha immaginato una struttura bipartita: nella prima parte si dispiega una specie di oratorio laico per musica, testi, movimenti, un tragico catalogo, emozionato, dei morti ammazzati negli anni della guerra di mafia. Morti che forse non hanno insegnato nulla a questa terra che li ha digeriti o solo nascosti in qualche anfratto buio (o eccessivamente luminoso) della sua storia, ma senza sostanzialmente cambiare il suo atteggiamento. In questo contesto le musiche di Betta sono bellissime e i canti dei fratelli Mancuso, come sempre del resto, sembrano scavati nella pietra e sanno smuovere le viscere. Il senso civile e politico appare chiaro ma la costruzione drammaturgica di questa parte e, di conseguenza, di tutto lo spettacolo, appare estremamente debole, laddove, ad esempio, la presenza costante delle due attrici (sacerdotesse di un rito infernale, madri, mogli, compagne, fantasmi?) è lasciata in una indeterminazione simbolica che non convince.
Nella seconda parte dello spettacolo, invece, il ritmo cambia, la musica assume una straniante intonazione tecno, il fiato diventa corto e persino spezzato, il corpo dell’attore si impone in tutta la sua forza scenica e non lascia spazio a nessun manierismo, le date degli assassinii assumono la forza misteriosa di una cabala tragica, la narrazione accelera e soprattutto si chiarisce come tale, si ha un lungo e potentissimo monologo di Pirrotta (un cristo in croce) in cui si ripercorrono i momenti appena precedenti alle singole uccisioni compiute dalla mafia: se ne esplora il terrore e l’orrore negli occhi delle vittime, l’infamia vigliacca nella prospettiva (sorridente addirittura e banalmente malefica) degli assassini. Non occorrono nomi, quelli li ricordiamo tutti, almeno i più celebri, necessita piuttosto ricordare la “normalità” di quelle persone e la violenza bestiale che ha attraversato le loro vite, che ne ha straziato i lunghissimi istanti finali, è necessario ricordare la paura che hanno dovuto incontrare, gestire, vincere. Per tutti. Anche per noi, che magari preferiremmo dimenticare.

Almanacco siciliano
di Roberto Alajmo, regia Vincenzo Pirrotta, musiche Marco Betta e Fratelli Mancuso; con Elisa Lucarelli, Cinzia Maccagnano, Vincenzo Pirrotta, Enzo e Lorenzo Mancuso; scene di Claudio La Fata, costumi di Vincenzo Pirrotta, luci di Nino Annaloro, assistente alla regia Salvo Dolce, direttore dell’allestimento scenico Antonino Ficarra; produzione Teatro Biondo Palermo.