Estate stagione di Festival e così, come ormai tradizione, molte città e borghi italiani si animano di iniziative famose o meno famose, con lungo e rinomato pedigree o del tutto nuove, che talora, però, tendono purtroppo a trasformarsi da “feste”, come insegnerebbe l’etimologia, ovvero rassegne, in vere e proprie “fiere” durante le quali presentare il prodotto per la prossima stagione di questo o quel cartellone invernale, dimostrando come il tarlo del “commercio” non abbia smesso di insinuarsi anche in questo nostro ambiente, creando un vero e proprio “mercantilismo teatrale” con corredo di gossip giornalistico e di sponsor vari. Il festival “Teatro a Corte” diretto dal suo ideatore (era il 2007)
Beppe Navello, coadiuvato anche nella consulenza artistica da Mara Serina e Sylvie Cavacciutti, rappresenta ancora, a mio parere, una positiva eccezione in questo panorama un po’ convulso e anche confuso.
Non che in esso sia assente l’aspetto della giusta “promozione” dell’attività artistica e teatrale, perché anche il teatro come ogni espressione della vita comunitaria non può non avere un aspetto economico, ma perché qui anche l’economia mi sembra vissuta nel suo bel senso etimologicamente antico e fondante, cioè quello “dell’amministrazione (sana) della propria casa”.
Intendo dire che questo festival, che arricchisce il luglio torinese, è sempre profondamente attento ai legami della comunità che lo esprime, è cioè, nei riguardi di questa in tutte le sue dinamiche ed evoluzioni, fortemente inclusivo utilizzando lo strumento del teatro come linguaggio su cui articolare la comunicazione e, appunto, attivare la partecipazione.
Non è solo un fatto di cartellone, a mio avviso, pur essendo quello di “Teatro a Corte” un cartellone estremamente diversificato e per questo estremamente sorprendente per le novità che propone da tutta Europa, mantenendo ferma la barra di una coerenza altrove non riscontrabile.
È soprattutto un fatto di condivisione che coinvolge in primis gli artisti, i critici e gli studiosi, rimescolando e miscelando le impressioni, le suggestioni ancor prima delle opinioni, e creando “relazioni” che vanno oltre l’attività professionale, che dunque si apre a suggerimenti e corrispondenze inattese, così da creare infine comunità singolari dentro una comunità più vasta e variegata.
Merito delle scelte artistiche, certamente, merito dei luoghi degli eventi, altrettanto certamente, e merito infine delle digressioni culturali che intercettano il percorso del festival aprendo a nuove prospettive (una tra tutte, quest’anno, la visita all’oasi delle cicogne di Racconigi), ma merito soprattutto, io credo, delle persone che lo organizzano, anche con sacrificio personale, per la curiosità che le anima e per l’attenzione alle singolarità, che vivono sempre dentro un collettivo funzionante e ne fanno una comunità piacevole.
Chiusa questa premessa, che è la semplice constatazione di un fatto, vediamo quello che “Teatro a Corte” ci ha proposto nel secondo week end, dal 14 al 16 luglio.
LES LIMBES
Uno spettacolo di magia non mancava mai nelle feste veramente popolari e Beppe Navello ce ne regala uno molto singolare e affascinante, questo del francese Etienne Saglio visto al teatro Astra di Torino il 14 luglio. La magia è un viaggio oltre la dimensione consueta e rende vivo ciò che sembra inanimato. Qui l’artista ci accompagna con le sue magiche creature nate dal nulla di un sottile velo di plastica trasparente che avvolge il suo rosso mantello (il colore della vita) e attraverso di quelle proietta ed elabora, con la forza di una piccola bacchetta, le nostre più segrete aspettative. Quelle aspettative che spesso solo il sogno disvela e rivela ma che il teatro qualche volta cattura come il segno di una vita più profonda, che oltre la nostra ragione, continua a risvegliarsi quando meno ce l’aspettiamo e continua soprattutto a ri-animarci (ci riporta e ridona l’anima dunque) da un torpore che l’opaca contemporaneità sembra rendere invincibile. Un viaggio ed una peripezia nella mente, in quella mente in cui l’irreale diventa, perché intimamente più significante, più reale di quel “reale” che oltre le parole liquidamente ci circuisce. Parafrasando il titolo di un celebre libro di Fassbinder potremmo dire che il Teatro “libera la mente”.
Il 15 luglio trasferimento al Castello di Rivoli che nelle sale del Museo di Arte Contemporanea ha ospitato i due spettacoli della giornata, a rafforzare le sinergiche interazioni tra arte corporea e arte figurativa che fanno l’essenza del teatro in genere e del teatro contemporaneo in particolare. Ma in un festival in cui la presenza francese è tradizionalmente molto forte ed in una giornata che vedeva una compagnia francese succedere ad una compagnia francese, non poteva mancare un ricordo dei tragici fatti che nella notte precedente avevano insanguinato Nizza. Così Beppe Navello ha invitato il Console di Francia per una breve ma commossa commemorazione che, accompagnata da un partecipato minuto di silenzio, ha preceduto il primo spettacolo della serata, perché fare teatro vuol dire capire e anche resistere.
HAKANAI
La compagnia francese Adrien M & Claire B. ha proposto una coreografia che dialoga con l’istante, con l’istante che non è un punto ma la sospensione del tempo propria dei nostri sogni. Tra metafisica ed onirismo dunque il corpo, la natura insomma, si confronta in un certo senso con la trasformazione tecnologica del mondo che ci circonda. Una trasformazione però sempre meno tecnica e sempre più virtuale che pare prosciugarci. Un mondo cioè che si trasforma davanti ai nostri occhi e cui, sembra, non abbiamo più nulla da opporre. Così tendiamo ad adeguarci a queste nuove coordinate e a trasformare noi stessi pur di riempire il vuoto che ormai ci “riempie”. Luci che si trasformano in gabbie rinchiudono la ballerina che, come noi, non trova più la sua essenza profonda e dunque resta muta e non comunica. È, a mio avviso, una sorta di danza ormai sulla difensiva che non circoscrive e crea lo spazio ma da uno spazio esterno ad essa e incontrollabile è man mano recintata. Da qui, pur nella bravura dell’interprete, un senso di freddezza, di gelo che incombe.
UNDER FLAT SKY
Dello scozzese Billy Cowie ricordo con suggestione lo spettacolo Tango de Soledad e della sua bravura e del fascino delle sue creazioni questo sua nuova prova è una conferma. Due ballerine orientali sul ritmo della danza butoh interagiscono con l’arte figurativa della tedesca Silke Mansholt che quasi recupera da quei rituali movimenti un senso suo proprio ma rinnovato, in una dinamica serrata in cui la profondità essenziale dell’essere umano, anche nel suo “esserci” contemporaneo così contrastato, emerge finalmente con la forza della danza. Le cadenze di antiche liriche orientali che accompagnano le evoluzioni della danza, integrate quasi in quelli che ricordano i versi di Zeami Motokiyo e del teatro No ed in essi riecheggiate, esaltano gli stilemi orientali delle proiezioni, simili talora ad antiche pitture vascolari di un oriente che tanto ha influenzato il nostro sguardo. Non un sovrapporsi dunque, non un dominare e opprimere, ma un reciproco rafforzarsi di suggestioni figurative, sonore e psicologiche che disegnano anime ancora forti e ricche, ad indicare forse che la via da secoli percorsa, quella del teatro e dell’arte, quella della danza e del suo magico cerchio di spazio e tempo, sembra ancora aperta per noi.
Il Castello di Racconigi è stato il protagonista della giornata del 16 luglio offrendo le sue magnifiche prospettive ad altri due spettacoli, in un certo senso sotto la comune insegna del rapporto di genere visto dalla parte della donna, cui la presenza delle cicogne che hanno appena nidificato sembra aver offerto un affascinante retaggio simbolico.
A STRING SECTION
Capita che l’attenzione verso il senso costruttivo, sintattico, di un spettacolo distragga dalla complessiva suggestione dello spettacolo stesso, dentro la quale suggestione, invece, si nasconde molto più significato di quanto sembri apparire. Con “String Section” (“una sessione d’archi”) le danzatrici anglo-belghe di Reckless Sleepers costruiscono una sorta di spettacolo schermo, di finzione scenica e segnica, impegnando il nostro sguardo mentre tagliano le gambe, in un sonoro concertare di aspre lame e legno secco, alle sedie sui cui elegantemente siedono. Ma mentre il nostro sguardo e il nostro cervello è in questo occupato, la nostra mente e il nostro cuore transita oltre, in un mondo di suggestive corrispondenze, in un mondo di donne impegnate a recuperare equilibri resi instabili, a riparare naturalmente i danni di una smania auto-distruttiva che sembra essersi impadronita della società. Un mondo di donne che si ostinano a sedere, dritte ed eleganti, in uno scenario in rovina, che si ostinano a riproporre la vita in movimento, la vita che si fa comunque a partire da loro medesime. Strana e affascinante combinazione di danza e silenzi, rotti dal solo roteare delle loro lame, che, mentre la mente vacilla, recupera nel sentimento e nella ferrea volontà l’equilibrio del nostro vivere. Quasi che il dono della vita da parte delle donne, in un contesto che si ostina a combatterle, si rinnovasse anche nei gesti più quotidiani.
LA PARTIDA (foto di Marti E. Bernguer)
Mescolare linguaggi e culture fino a meticciare, con gli eventi, gli stessi luoghi è un po’ il segno del “Teatro a Corte”, e questo spettacolo della coreografa catalana Vero Cendoya ne è, ove ce ne fosse bisogno, un’ulteriore prova. Cinque calciatori e cinque ballerine su un campetto di calcio, come tanti nelle periferie del globo, predisposto nel giardino del Castello per distillare nella danza il senso profondo di quello che è lo spettacolo forse più popolare del mondo, guidati con saggezza dalle parole di Eduardo Galeano grande scrittore e, da uruguagio, finissimo conoscitore del calcio. Ancora una volta il teatro e la danza diventano il velo oltre il quale conoscere e ri-conoscere, perché una “vera” partita di pallone non è quello che si vede ma, come insegna Galeano stesso, quello che vi precipita dentro di memoria o sentimento in un impasto impregnato di storia e di illusioni “concrete” come la vita stessa. Tra ironia e divertimento i movimenti coreutici quasi interpretano ed elaborano veroniche e dribbling che mandano in estasi lo spettatore, e dentro, come detto, “sentiamo” la vita che pulsa tra amore e odio, tra contrasti e attrazioni. Su tutto l’arbitro, ambiguo dittatore che alla fine tutto decide. Scopriamo così dentro questo mondo squadernato e svelato nei ritmi della “partida” (quella che giochiamo ogni giorno) anche o forse soprattutto la violenza e le differenze di genere, anzi la violenza “delle” differenze di genere che saggiamente la drammaturga rappresenta anche nelle sue immediate conseguenze sociali (la lotta delle lavoratrici spagnole per il tempo della maternità) e di cui il confronto in campo nelle sue sbilanciate (maschi contro femmine) forze in campo è metafora ma anche, per fortuna, prospettiva di ribaltamento. Uno spettacolo intenso e molto partecipato, che coinvolge oltre ogni aspettativa e che mescola mondi in apparente contraddizione svelandone inaspettati legami. I testi di Galeano (interpretati in spagna dalla almodovariana Blanca Portillo) sono stati tradotti e letti dalla brava Stefania Masala, mentre una nota di merito particolare va data alle bellissime musiche dal vivo di Adele Madau, violinista di vaglia e concertatrice di pregio.