Eravamo abituati a vedere, con le tante “Eresia della felicità” che in questi anni ci hanno accompagnato, innumeri adolescenti attraversare la soglia, virtuale ma quasi blindata, che divide il palcoscenico dalla sua natura profonda, come ancora divide loro dalla vita piena e adulta che spesso affanna, e sciamare oltre, sotto lo sguardo sorridente di Marco Martinelli per ritrovare tra di noi, prima ancora che dentro di loro, un Dioniso sepolto da troppo tempo (un Dioniso e non Dioniso perché ciascuno ha il “suo”). Ora Marco Martinelli ci ha permesso di gettare uno sguardo su quel processo eterodosso che è la sua, e delle Albe, “non scuola”, un processo o meglio un percorso alla continua ricerca appunto di quell’eresia che chiamiamo felicità avendone talora dimenticato la sorgente. È successo, felicemente, a Sarzana, nel corso della tredicesima edizione del
“Festival della Mente”, nella serata della sua giornata conclusiva, in un auditorium palestra.
Sintomaticamente Martinelli ha scelto non di parlare della non scuola, ma di farcela vedere ed anche un po’ vivere, perché la non scuola non è un metodo codificato ma è un percorso di liberazione del teatro e forse anche della vita. Un percorso che non ha paura della forza che inevitabilmente è sprigionata dal corpo e dalla mente degli adolescenti, esseri al confine tra l’infanzia e la vita adulta, e quindi, come dice Marco stesso, “fragili” ma naturalmente “ricolmi di desideri” e quindi di rabbia e di amore mescolati fino quasi a fondersi. Non ne ha paura ma al contrario la cerca e la sollecita.
In loro infatti, questa la scoperta più affasciante, è più facile rintracciare e far uscire ancora candido e ingenuo il “Dioniso” del teatro, quel dio ebbro di miele che cerca nella danza e nel canto l’estasi, quel dio che gli adulti hanno spesso dimenticato e non solo nel teatro, costruendo confini e limiti, barriere tra lo spettacolo e lo spettatore fin quasi ad inaridire la sorgente della condivisione e della fusione.
Dunque la non scuola è tale innanzitutto perché non insegna (metodi o sistemi, regole o limiti) ma apprende e fa apprendere, suggerisce e suggestiona infine a cercare quel dio dentro i ragazzi, dentro le “guide” e poi dentro gli spettatori, tutti coinvolti fino a ridiventare, stravolgendo ritmi e ditirambi, insieme di nuovo un coro, quel coro che non è “roba” antica da accantonare, ma il vero senso dello stare nel “teatro”.
Così è successo, con trenta ragazzi che volevano essere lì (la non scuola come suo primo codice non sceglie) e che Marco non conosceva e che a mala pena si conoscevano tra di loro (la non scuola non vuole classi), è successo che un po’ alla fine siamo tutti cambiati.
Il tema del Festival quest’anno era lo spazio nelle sue mille accezioni e il suo riferimento un verso di Alda Merini: “Voglio spazio per cantare crescere / errare e saltare il fosso / della divina sapienza”. La non scuola ci sembra cercare quello spazio, o meglio lo ricostruisce perché quello è lo spazio del teatro, lo spazio della liberazione e della conoscenza soggettiva e collettiva.
Marco Martinelli, dopo le prove in scena, non ci ha dunque spiegato quello che ha fatto, bensì ci ha raccontato la sua venticinquennale esperienza con la non scuola, a partire da una ancora oscura intuizione cui solo la peripezia ha dato senso e ragione. Soprattutto ci ha mostrato, oltre che al cuore anche alla mente, come l’eresia della felicità (è il nome comune a tutti gli spettacoli nati dalla non scuola) non è stata una esperienza fine a sé stessa ma è stata una esperienza da cui lui per primo ha imparato e che lui per primo, e con lui il suo teatro, ha cambiato.
Ha cambiato forse, ha confessato, il suo essere drammaturgo e regista, produttore e capo-comico, pur restando ciascuna di queste sue attività libera ed autonoma, le ha cambiate ma fino a costituire tutte insieme una identità nuova, forte e profonda.
Niente di sociologico dunque, pur con gli ovvii e benefici risvolti sociali che tale esperienza ha avuto, o didattico ma un percorso eminentemente estetico di ricerca e di recupero che inerisce la profondità del teatro e la sua essenza, che non è “norma” ma in fondo è soprattutto l’arte del dono (anche il sacrificio rituale è un dono), l’arte cioè del donare e del ricevere doni.
Un percorso al cui interno, chissà, potrebbe essersi ritrovato anche dal punto di vista esistenziale, quasi in esso si fosse potuta rispecchiare, e trovare le giuste ragioni, anche la sua storia personale, l’incontro con Ermanna Montanari, la fondazione delle Albe, la sua scelta definitiva, passionale come un amore, del teatro.
Ricordarlo non solo con dotte citazioni ma riempiendo di sangue nuovo i classici e quel dio antico che li ha ispirati, in ogni luogo del mondo che la non scuola ha raggiunto testimoniando che siamo “tutti” una comunità (“Io sono noi” recita un proverbio africano che Marco ama citare), è, credo uno dei meriti principali della non scuola di Marco Martinelli e del Teatro delle Albe.
Foto Giulio Cervellati