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Che il Teatro, quello con la T maiuscola, abbia oggi in una fredda mattina di precoce autunno perso uno dei suoi protagonisti è un semplice fatto cui tutti, non sempre con sincerità vera, sentiranno di doversi associare con cordoglio. Più difficile, quando la frattura della morte si consuma in una perdita improvvisa, è  invece conservare il senso di una vita che si è consumata allegramente, una vita “esageratamente fortunata” la definisce chi quella vita ha vissuto, una vita piena tra arte e politica, vissuta comunque sulla scena del teatro che è da sempre la scena del mondo. Ma soprattutto riempita di amore, un amore lungo più di sessant’anni, un amore alimentato da una donna straordinaria e bellissima, essenziale

nella sua vita come nella sua arte.
Il Nobel per la Letteratura che riempirà in questi giorni le pagine dei giornali e le immagini dei notiziari hanno sancito, anche tra nostrani malumori, la grandezza di un’arte che affonda le sue radici nella medioevale rinascita, dalle strade e dalle piazze, del teatro moderno, ma al senso di quell’evento mancherà sempre qualcosa se non si parla di Franca Rame, che lo stesso Fo volle come compartecipe del premio.
Franca Rame veniva infatti da una dinastia di artisti di strada che custodiva e preservava nella sua esperienza innumerevoli canovacci che attraverso di lei andarono ad arricchire il repertorio drammaturgico di Dario Fo mentre, come lui stesso ha riconosciuto, ne costruivano la raffinata arte attoriale.
Mi si permetta dunque nel ricordare la grandezza di Dario di non dimenticare quella di Franca che arricchiva con la sua antica sapienza quegli articolati, estrosi e anche lunatici transiti teatrali, una presenza discreta, talora messa in ombra e mai rivendicata, ma costante ed essenziale.