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Dopo essersi confrontato, nella trilogia sul Potere, con la Tragedia, ora Emanuele Conte con questa sua nuova  regia si pone di fronte al Mito, che della Tragedia antica è comunque la fonte sorgiva, e lo fa, come nella sua cifra più intensa, rileggendolo attraverso la modernità dello sguardo di Jean Anouilh che già aveva ispirato la sua Antigone.
Mito universalmente noto quello di Orfeo ed Euridice, ma anche mito dalle mille sfaccettature significanti, a mio avviso più che mito d’amore, come è generalmente riconosciuto, il mito dello “sguardo”, lo sguardo che articola la realtà oltre la realtà stessa, con le sue mediocrità, e così la trasferisce al di là della vita, uno sguardo di cui la musica e l’arte sono la

grammatica.
Dunque un mito “estetico” più che un mito “erotico”, all’interno del quale la relazione maschile e femminile supera lo stretto ambito di genere, incatenato nella relazione sessuale, per approdare ad un discorso sugli squilibri di potere, tra e nel genere, in cui inevitabilmente implode ogni tentativo di autenticità e sincerità, ogni slancio di verità.
Maschile e femminile da questo squilibrio, fatto di prevaricazioni e subordinazioni cristallizzate sull’uomo e sulla donna a partire dalla rilettura patriarcale dello stesso libro della Genesi, sono come intossicati e la loro guerra millenaria diventa una sorta di spettacolo a tutela del potere costituito. Così, entrambi, ed entrambi parimenti infelici, navigano senza bussola alla ricerca di quella verità e autenticità che il mito dell’amore assoluto vorrebbe, senza riuscirvi, incarnare ed interpretare sulla scena e nella vita.
Un mito insieme così ampio e profondo che lo scrittore francese può popolare dei suoi personaggi mediocri, dall’attrice di cabaret e il suo ganzo, al portiere d’albergo e al cameriere di un bar della stazione e via raccontando, a far da contorno ai due protagonisti e a indicarci la via di una rivisitazione.
Emanuele Conte si serve dunque di Anouilh soprattutto per demitizzare il mito, ricondotto ai ritmi di una provincia in fondo contenta di sé in cui il destino ha il volto di un commesso viaggiatore e l’arte è una occasione per campare la vita in anonime stanze di albergo. Ma una demitizzazione che quel mito inaspettatamente fa rivivere e che ci mostra attraverso di esso i nostri orizzonti chiusi.
Euridice muore travolta da un autobus ma l’amore del violinista di strada Orfeo le consente di ritornare in vita al patto di non essere guardata prima del mattino. Orfeo la guarda, forse non per troppo amore o per gelosia ma proprio perché solo strappando la tela consunta della vita pensa di poterla amare. L’al di là che li aspetta è quella anonima camera di albergo.
La messa in scena contiene spunti sintattici di notevole impatto, a partire dalla contaminazione cinematografica che dalla bella scenografia trae spunto per diversioni linguistiche da Nouvelle Vague godardiana (ancora l’ossessione dello sguardo), ma il lavoro sul testo forse poteva essere più aggressivo per sfrondare una certa verbosità che disperde i ritmi drammaturgici e talora impone un eccessivo distacco, quasi alienato, alla recitazione dei protagonisti. Scegliere con più audacia, lasciando sotto-traccia, avrebbe credo giovato alla efficacia metaforica del racconto scenico che invece, a volte, si nasconde dietro le parole che lo dicono.
La traduzione è di Giannino Galloni, la scenografia, molto efficace nel gioco di eco e di specchi, i costumi, filologici, di Daniela De Blasio, le luci di Tiziano Scali e Matteo Selis e i video di Luca Riccio.
In scena Sarah Pesca, una Euridice contaminata dalla Lulù di Wedekind e dunque già lontana dal “paradiso”, Gianmaria Martini, il suonatore di strada Orfeo melanconico cantore di un fallimento atteso, Enrico Campanati, padre di Orfeo e impresario di Euridice vera summa dei luoghi comuni e dei tick del maschio di provincia, e poi Fabrizio Matteini, Pietro Fabbri, Susanna Guzzetti, Alessandro Damerini, Marco Lubrano e Alessio Aronne a popolare bistrot e stazioni ferroviarie di un mondo che non riesce a fermarsi.
Un testo complesso ed un esordio che credo richieda ancora qualche limatura per entrare a pieno regime anche nell’apprezzamento del pubblico. Alla sala Trionfo del Teatro della Tosse dal 26 ottobre al 6 novembre, dedicato al recentemente scomparso Bruno Cereseto, costumista e storico collaboratore del Teatro della Tosse sin dai suoi albori, la cui arte mancherà non poco.

Foto Donato Aquaro