Terzo appuntamento de “Le grandi parole” e con “Il teatro e il mare”, tema di questa nuova edizione dell’interessante ciclo di conferenze promosso dal teatro Stabile di Genova e finalmente emerge con più forza un legame, anzi il legame che intreccia il mare con la femminilità, femminilità di cui gli oceani sono da sempre simbolo e metafora perché solo in essi, il mare e la femminilità, la vita che continuamente si rinnova e crea è, come dire, così “immediatamente” evidente. Ospiti il 31 ottobre al teatro della Corte Moni Ovadia e Elisa Savi, coordina Margherita Rubino mentre una bravissima Lucia Lavia interpreta brani delle Supplici di Eschilo (in dialogo con Ovadia/Pelasgo) e della Medea di Euripide.
Occasione dell’incontro è stata, appunto la messa in scena a Siracusa delle Supplici da parte di Moni Ovadia, una messa in scena che è stata anche la ricerca di una lingua che pur attuale si adattasse agli umori di quella narrazione che pare sorgere direttamente dal mare e che il mare attraversa.
Nel suo intervento Moni Ovadia ha su questo incentrato il suo ragionamento, quasi che il sanguinettiano recupero di quella parola antica, attraverso l’originale innesto di Siciliano (la tragedia fu scritta a Siracusa) e greco moderno, consentisse di mostrare anche nella tragica attualità del Mediterraneo dei migranti la forza di contaminazione e meticciamento fecondo che il nostro mare ha sempre rappresentato, divenendo nei millenni fondamento e radice della nostra comune civiltà europea, un fondamento che ora, resi ciechi dal denaro e dal potere, sembriamo rinnegare.
Ma se questi sono i più evidenti riflessi e riferimenti di un transito drammaturgico che vede nei classici antichi la forza di una idea incomprimibile, più a fondo si scorgono le suggestioni del femminile, portatore di una comunanza di radici e orizzonti che il maschio non sembra percepire, nonché protagonista di una ribellione che apre le porte alla libertà, la propria, quella di chi le accoglie in nome della democrazia, ma paradossalmente anche la libertà dei loro persecutori.
È stato interessante a questo riguardo l’intervento di Elisa Savi, costumista di quella messa in scena, che ha saputo non solo individuare figurativamente le parti in confronto ma soprattutto, in un caleidoscopio di colori come su una tavolozza, ne ha enfatizzato la dinamica e articolata unità significante.
Il femminile dunque, e così è stato naturale, quasi inevitabile, che dalle Danaidi in fuga dall’Egitto il nostro sguardo si volgesse su un’altra profuga, profuga per amore, quella Medea del modernissimo Euripide in cui la condizione di esule in terra straniera si fa drammatica evidenza della condizione femminile nella società patriarcale, quasi espressione e memoria da annichilire di un altro modo di essere e vivere (quello abbandonato nel lontano oriente di un passato forse matriarcale, lei che è insieme regina e maga).
Mi ha colpito che la ventenne Lucia Lavia, una Medea di grande forza anche nelle poche battute recitate, fosse percepita come troppo giovane per quella parte. Certo, dal punto di vita anagrafico ciò era evidente, ma era altrettanto evidente che dal punto di vista simbolico la giovane Lavia stava rappresentando le donne, anche della sua età, che tutte, nella nostra Società, sono possibili se non potenziali Medea.
Una Società di replicanti Giasone che, anche senza contendersi dinastie e ricchezze, considerano la donna un oggetto da “usare” e poi eventualmente abbandonare, anche senza ucciderle fisicamente come ormai troppo spesso accade. Una Società in cui l’amore sembra un optional per eventualmente abbellire la propria proprietà, un mondo di oggetti in cui anche le relazioni sono oggetti e che rende oggetti tutti, le femmine ma anche i maschi.
Una Società infine in cui in fondo la relazione di genere ed i suoi squilibri non sono che una mascheratura usata per occultare i veri rapporti di potere, quelli del denaro e della sopraffazione, e per sviare il nostro sguardo, uno sguardo che le parole di Medea rendono di nuovo, e forse suo malgrado, limpido e profondo.
Sono infatti parole che, come quelle delle Supplici, ci dicono che non di sesso si tratta, bensì di potere e di sopraffazione e sfruttamento che dalle donne si riverbera e propaga su ogni altro soggetto debole, i bambini, i vecchi ovvero i migranti in fuga.