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Ci sono libri che parlano del mondo e ci sono libri che parlano di altri libri. Allo stessa maniera accade per le pièces teatrali, ce ne sono alcune incentrate sulla vita e altre che della vita parlano in maniera indiretta, passando attraverso complessi giochi di specchi che rimandano ad altri testi teatrali, libri, corsi drammatici, riletture e riscritture. E’ proprio questo il caso di Elvira, in scena al Piccolo Teatro di Milano fino al 18 dicembre 2016 per la regia di Toni Servillo. Tra il febbraio e il settembre 1940, al Conservatoire d’Art Dramatique di Parigi il noto attore e regista francese Louis Jouvet tenne sette sedute per preparare la giovane attrice Claudia a interpretare l’atto IV, scena 6 del Don Giovanni di Moliére. E’ il

complesso passaggio in cui Elvira sente l’urgenza interiore di parlare per l’ultima volta all’uomo che ha amato per ammonirlo a cambiare vita. Elvira, ormai, è una creatura votata al misticismo, rivestita di un amore per quell’uomo che lo trascende e si fa amore divino. Il testo delle lezioni, svolte di fronte alla classe di teatro, venne trascritto ed è divenuto pièce grazie alla regista e drammaturga Brigitte Jaques-Wajeman. Servillo, oltre che regista, interpreta il ruolo di Jouvet maestro intransigente e dispensatore di consigli nei confronti dell’allieva interpretata da una brava Petra Valentini, con una maestria sul filo dell’ironia che rende ragione della sapienza teatrale del maestro Jouvet.
Si tratta di un testo molto particolare, rischioso, costantemente in bilico tra l’incomprensibilità e la capacità di squarciare mondi di significato. Un maestro, la sua allieva prediletta non sbocciata, un passaggio cruciale di Molière, sette continue ed estenuanti ripetizioni dello stesso passaggio. Niente più. Eppure, attorno a questa ripetizione maniacale, il teatro si fa metateatro, racconta del mestiere dell’autore e dell’attore. Si racconta di un geniale Molière che sa concepire le commedie tragiche, come un susseguirsi di motti di spirito e drammi interiori che richiedono all’attore una variazione di toni e stili degna di un grande maestro.
Jouvet-Servillo chiede alla giovane attrice di compiere la metamorfosi, di entrare nel personaggio e di viverne il sentimento drammatico e mistico al contempo. Uno sforzo psicologico che deve farsi esistenziale, un lavoro di recitazione che si trasforma da comprensione intellettuale a interiorizzazione. Il lavoro dell’artista diventa una sorta di catarsi dall’esistenza, di vita all’ennesima potenza grazie ai personaggi della scena, di vaccino nei confronti delle disgrazie del proprio secolo che incombono sullo sfondo. E difatti la settima scena si conclude con l’occupazione nazista di Parigi che riecheggia sullo sfondo e che, realmente, pose fine a quelle lezioni che mai più riprenderanno.
Il teatro che parla di sé, insomma, ma se fosse solo questo sarebbe poca cosa, autoreferenziale e narcisistica. Elvira racconta di un modo di fare teatro che illustra il senso della vita, che apre facoltà umane diversamente ottuse a causa dell’approccio razionalistico all’esistenza. Elvira può esistere in scena se colei che la interpreta sa essere degna di Elvira. Deve allora liberare la mente, dar spazio alla “pancia”, entrare in un ordine di valori e sentimenti più ampio e complesso. Ecco il senso dell’arte teatrale, come già Aristotele seppe ben comprendere.