Luoise Bourgeois fu una grande. Probabilmente perché seppe fare ciò che gli altri non si aspettavano da lei. Nata a Parigi nel 1911 divenne una brava scultrice, poi fu donna emancipata con opinioni e atteggiamenti tutt’altro che concilianti, come forse alle donne non era ancora permesso. Poi lasciò la Francia e si trasferì negli Stati Uniti, dove divenne – donna e anche straniera – la portabandiera dell’arte contemporanea universalmente riconosciuta come tale. Fino al 20 novembre 2016 il Teatro Franco Parenti di Milano (via Pier Lombardo 14) le dedica uno spettacolo teatrale che già nel titolo è tutto un programma: “Louise Bourgeois, Falli, Ragni e Ghigliottine”. D’altra parte la scultrice dal carattere
impossibile è divenuta famosa per i soggetti lugubri o scabrosi delle sue opere, come quel grande fallo a braccetto con il quale si fece ritrarre da Robert Mapplethorpe o i ragni giganti che campeggiavano nel suo atelier.
Luca De Bei, autore del testo e regista, ricostruisce mirabilmente il personaggio riuscendo a portarne alla luce sia le antipatiche complessità che i delicati meccanismi del suo animo. La scena si apre con l’immagine pubblica della Bourgeois, un audio originale della sua voce, un’intervista doppiata da una sconsolata traduttrice che indulge nelle asperità contraddittorie di un carattere bizzarro. Poi la presa di coscienza, la stessa voce fuori campo che ricorda alla Scultrice che ormai è morta. Finalmente si può togliere la maschera, anche fisicamente: le è concesso abbandonare l’immagine pubblica e scontrosa (fragile?) per dare alla luce l’altro sé, quello vero. Tolto il cerone e la gomma che raggrinziva quel volto di novantenne (morì nel 2010), inizia il racconto interessante. La rabbia verso un padre che la volle sempre e comunque diversa, un maschio, meno anticonvenzionale, meno se stessa. La tenerezza per una madre forte ma gelosa, la presa di coscienza che per andare avanti bisogna fare i conti con ciò che c’è dietro, nel nostro passato.
Una bravissima Margherita Di Rauso riesce a modulare voci, toni e gesti per condurci nei meandri dell’animo ferito di una donna che ha trovato la sua personalissima terapia: la scultura. Quei grandi falli sono il confronto complesso con un maschile ambiguo, quei corpi lacerati rappresentano la lotta umana per la sopravvivenza e le ferite dell’amore, quel marmo tanto lindo quanto durissimo condensa la lotta come inno alla vita. Proprio nella lotta più viscerale col mondo, e con se stessa ancora prima, si colloca il pregio tutto concettuale dell’arte della Bourgeois, che questa pièce riesce così bene a cogliere. Diventa lotta con la materia – e non poteva che essere scultrice -, diventa lotta con l’opinione pubblica, col pensiero dominante, col disperato bisogno di essere amata e riconosciuta.
La scena vuota rende ancora più intimistica la confessione di una vita, riempita dai movimenti prima convulsi e poi sempre più naturali, quasi riappacificati con sé e col mondo. Progressivamente si compie una mutazione, la storia di una vita diventa la storia di molte vite, forse di una umanità intera in lotta col proprio destino. Sopravvive solo chi si fa coraggio e lo guarda in faccia, quel destino, a caccia dei ragni giganti e dei corpi mutilati che ombreggiano dentro di noi.