Le drammaturgie ed il teatro in genere hanno ‘l’occhio lungo’ e ci sono temperie storiche in cui quanto più questo sguardo si è concentrato sulla propria contemporaneità tanto più è stato in grado di paradossalmente decifrare il futuro e dunque anche il nostro incerto presente. È questo, a mio avviso, il caso di quell’epoca di transito che visse la Germania post-napoleonica, divisa ed in preda a convulsioni oscure, politicamente instabili e ideologicamente passatiste e repressive, in cui la confusione dei ruoli sociali scuoteva le coscienze più sensibili. Un mondo misteriosamente eterodiretto ed in guerra con sé stesso, proprio come ci capita di vivere la nostra difficile modernità. È dunque, come lo è quello di Von Kleist, anche il caso di Georg Buchner, un autore non a caso mai rappresentato fin quasi alle soglie della nostra epoca e di cui Cesare Lievi propone una traduzione agile e
molto sintonica senza rinunciare alla grazia e alle profondità del testo originale, costruendo così, per regia, una drammaturgia se non nuova, aggiornata, in cui la fedeltà, come diceva Edoardo Sanguineti, è occasione di riscoperta di senso.
Questa, in particolare, è delle tre drammaturgie scritte da Buchner forse la meno conosciuta ma anche quella che più delle altre è esplicita nel transito tra una sensibilità morente ed una nuova, ancora prematura forse se non ottenne alcun ascolto, ma proprio per questa feconda, una prova del “teatro ancora da venire” come Goethe scrisse di Von Kleist.
Una favola barocca al suo esordio in cui gli spunti romantici, distribuiti come specchietti per le allodole, sono praticamente soffocati da una sintassi ridondante e piena di riflessi, che progressivamente vira, proprio per queste sue caratteristiche, sul simbolistico per anticipare, senza pienamente approdarvi, il surrealistico.
All’interno di questa struttura stratificata la metafora politica è evidente nella sua esplicita alienazione, tale dunque da essere censurata all’epoca ed essere poi recuperata dal teatro politico della Germania pre-nazista dei Piscator e dei Brecht, cui non poteva sfuggire la corrosiva critica di una borghesia che col tempo non appariva poi così cambiata.
La regia di Lievi, in sintonia con la sua riscrittura, asseconda questo transito sintattico che la scena, per sua propria natura, enfatizza fino a far immaginare suggestive corrispondenze, pur in quadro di fiaba morale, con le dinastie patafisiche degli Ubu di Jarri.
Tutt’altro che teatro di divertissement, dunque, quello di Buchner e dunque quello di Lievi che coglie pienamente gli aspetti significanti, molto politici anzi molto polittici, che si nascondono in questo gioco di specchi nel corso del quale la semplice trama inziale (un principe ed una principessa che non volendosi sposare fuggono per poi incontrarsi per caso e innamorarsi sotto mentite spoglie) alla fine rinnega quasi sé stessa lasciandoci tutti senza l’attesa “morale”.
Così sulla scena anche i grotteschi personaggi che la animano rinnegano sé stessi (un re ciarlone, un maestro ignorante, un primo ministro senza parole) perduti in una “non lingua” che tutto e tutti confonde, tranne il “fedele” servitore del principe, sospeso tra il fool shakespeariano e lo Zanni della Commedia dell’Arte, quel Valerio per il quale l’attaccamento alla terra e alla vita costituisce una guida robusta e indeflettibile, dal segno quasi di “classe”.
Una trama testuale curata per una messa in scena raffinata e complessa, figurativamente vivace e surreale, che nelle macchine e nei complessi movimenti scenici, nonché negli stessi costumi, riesce ad assecondare il significato estetico dell’insieme.
Bravi i protagonisti, sospesi tra immedesimazione e distanza, da Gianluigi Pizzetti (il re) a Lorenzo Gleijeses (suo figlio), da Maria Alberta Navello (la principessa e Rosetta) a Paolo Garghentino (Valerio) e poi, via via, Marcella Favilla, Matteo Romoli, Andrea Romero, Riccardo Forte, Riccardo De Leo e Vincenzo Paterna.
Scene e costumi sono di Marina Luxardo, le musiche di Germano Mazzocchetti, le luci di Cesare Agoni. Assistente alla regia Cristiano Azzolin, assistente costumista Monica Di Pasqua, direttore di scena Vincenzo Caruso, attrezzista Alessia Stivala.
Una produzione della Fondazione Teatro Piemonte Europa, diretta da Beppe Navello, cui va dato merito del grande sforzo produttivo, un merito che va esteso a tutti i tecnici che, in un momento economicamente molto delicato per il teatro, hanno collaborato alla messa in scena spesso con grande spirito di sacrificio.
Al teatro Astra di Torino dal 13 al 22 gennaio, già all’esordio con grande successo di pubblico.