Il teatro contemporaneo ha saputo squarciare l’anima umana indagandone i meandri più riposti, le pieghe più minute. Ha colto opportunità nuove da forme espressive talvolta più brevi, linguaggi diretti e cogenti, ibridazioni di codici e tecniche. Poi c’è il teatro politico. Sembrava scomparso nei lontani Settanta insieme alle passioni politiche della gioventù di allora e insieme al Sessantotto. Negli ultimi anni invece la drammaturgia contemporanea ha saputo riscoprirlo come veicolo narrativo del presente. Il Tricycle Theatre di Londra ha commissionato a 13 autori di narrare un passaggio della storia dell’Afghanistan: era il 2009, l’operazione è riuscita così bene che sta facendo il giro del mondo, Stati Uniti compresi.
Il teatro Elfo Puccini di Milano (corso Buenos Aires 33) ha raccolto la sfida e fino al 5 febbraio porta in scena la prima parte, costituita da cinque sezioni (seguirà la tourné al Teatro
delle Passioni, di Modena e all’Arena del Sole di Bologna).
Non sono nuovi, quelli della band di Ferdinando Bruni ed Elio de Capitani (entrambi i registi), a lasciarsi attrarre da queste maestose partiture teatrali, come già abbiamo potuto apprezzare con “Angels in America” o “History Boys”. Dopo la scoperta dell’emarginazione tutta Usa, è la volta del un racconto complesso di un popolo e di uno stato noto ai più solo come terreno di guerra al terrorismo. Così la prima sezione, “1842 – 1930: Trombe alle porte di Jalalabad” (di Stephen Jeffreys) racconta la prima guerra anglo-afgana come conflitto di civiltà, mentre “La linea di Durand” (di Ron Hutchinson) è la disputa tra l’emiro Abdhur Raham e Sir Henry M. Durand per la nascita del confine su una carta geografica tra l’Afghanistan e l’India Britannica cui seguiranno morti e distruzioni. “Questo è il momento” di Joy Wilkinson ha per protagonisti il re Amannullah Khan e la regina Soraya in fuga dall’Afghanistan verso l’Europa tra miserie d’animo e slanci eroici, “1979 – 1996: Legna per il fuoco” di Lee Blessing è invece una spy story imperniata sul direttore della CIA a Islamabad e il direttore dell’Intelligence del Pakistan, fino a “Minigonne di Kabul” (di David Greig), conversazione immaginaria tra una scrittrice e Najibullah, presidente dell’Afghanistan tra il 1987 e il 1992, presto trucidato dai talebani.
Ci si lascia appassionare da vicende storiche poco note, l’alternanza di recitazione e videoproiezioni sa ben evitare il rischio didascalico a favore di un incalzante ritmo quasi thriller. Cammin facendo nel corso delle lunghe ore che scorrono via lisce come l’olio, si ha come la sensazione che il rilievo di questa articolata operazione teatrale vada ben oltre la narrazione delle vicende di un lontano popolo. C’è tutta una vicenda umana che si racconta, la cultura seminomade che rifiuta i confini ma finisce per essere circoscritta su una carta geografica di spartizione di influenze belliche; russi e inglesi sullo sfondo e poi gli americani che armeggiano sulle spalle di un popolo fiero e controverso, in un’altalena continua tra sviluppo e terrorismo, tradizionalismo ultrareligioso e apertura agli alleati d’occidente.
Oltre alla abilissima narrazione, ben valorizzata da una recitazione e una messa in scena sufficientemente versatili da marcare le differenti penne autoriali di provenienza, questa ampia sinfonia storico-politica pare restituire le responsabilità ai vari protagonisti. Quel velo – forse ipocrita, forse superficiale – di rapida distinzione tra buoni e cattivi salta rovinosamente nel confronto tra culture e imperialismi. Si esce confusi, un po’ arrabbiati per aver forse causato la nascita di quella polveriera, un po’ in colpa per dimenticarcelo così facilmente.
Nel 2018 è attesa la seconda parte. Da non perdere, nessuna delle due.