Una eclettica Silvia Calderoni, attrice in un certo qual modo emersa dai turbamenti ribollenti di Motus, compone, e ci sembra il termine più adatto, questa drammaturgia con la brava Daniela Nicolò e la porta in scena per la regia della stessa Nicolò e ovviamente di Enrico Casagrande, fondatore e anima del gruppo romagnolo. Una drammaturgia che, a mio parere, va oltre sé stessa forzando, anzi quasi scassinando, le strutture per aprirla da una peripezia scenica che cerca, riuscendovi, di contenere ed interpretare dentro una esistenza individualmente singolare temi e suggestioni scottanti ovvero contraddittorie, e attraverso questo processo di depurarle da ogni incrostazione sociologico/politica o anche
psicologizzante per mostrarle nella loro nascosta e forse sorprendente naturalezza.
È secondo me la storia di una persona, non un manifesto politico anche se facilmente potrà e sarà forzato in tal senso, la storia di una persona che nella trascrizione drammaturgica e nel transito scenico si espone per decomporsi e così mutarsi in suggestione estetica condivisa che non chiude gli spazi ad una riflessione più contingente ma la ancora ad orizzonti più vasti e meno caduchi della polemica del giorno per giorno.
Per far questo la Calderoni espone ed usa drammaturgicamente il suo stesso corpo “performandolo” e significandolo proprio attraverso la sua esposizione che diventa significazione di un esserci, di un esistere in un mondo magari inizialmente sorpreso ed ostile, a partire dalla famiglia, ma che nella relazione con esso e con la sua metamorfosi si trasforma e quasi evolve.
La parola drammatica è qui mescolata con la musica fino ad esserne come impastata in una colonna sonora dalla sintassi cinematografica, che pesca a piene mani nella musica di avanguardia e non per trasmigrare e trasmutare suggestioni e riferimenti che sono nella scena ma che insieme vanno naturalmente oltre la scena.
Così la timida bambina del karaoke anni sessanta, comicamente prossima ai nostri ricordi profondi, rinasce come da una crisalide nella prorompente individualità dell’attrice in scena, una individualità fatta certamente anche di ambiguità sessuali e identitarie ma che proprio per questo, nella elaborazione estetica, diventano il segno di una soggettività che si è fatta forte e sicura di sé.
Diventa così superfluo sfogliare l’enciclopedia mediatica ed ossessiva delle differenze, a partire da quelle sessuali riassunte nelle teorie transgender, con eserciti di “specialisti” ad ambo i lati dispiegati, ma come attestati inutilmente su bastioni eretti per essere insuperabili e contrapposti ma forse paradossalmente legati tra di loro da una medesima volontà, quella di imporre all’altro una scelta: o di qua o di là.
Silvia e l’arte in cui ha trovato la sua nuova dimensione non scelgono tra le loro a volte contraddittorie nature e pulsioni, strappandosene qualcuna a favore di altre, le accettano per farne trampolino di nuove scoperte intime talora anche poetiche.
Un bello spettacolo, dai ritmi incalzanti enfatizzati da un multimedialità mai casuale ma sempre finalizzata al senso complessivo dell’essere in scena, ora e qui, davanti a noi, e dove gli oggetti stessi si trasformano per diventare interlocutori sulla scena e verso il pubblico.
Abbiamo detto di drammaturghi e regia, va aggiunto che i suoni e la fonica, essenziali a mio avviso per la piena esplicitazione della drammaturgia stessa, nascono dalla collaborazione tra Enrico Casagrande, Paolo Baldini, Damiano Bagli e Paolo Panella. Luci e video sono invece merito di Alessio Spigli.
Una produzione Motus in giro per il mondo dal 2015 che è stato un piacere vedere a La Spezia nel cartellone di FuoriLuogo e nel locali del Dialma Ruggero il 28 febbraio e il primo marzo. Sala più che piena con tanti giovani e giovanissimi, ma non solo. Moltissimi e calorosi gli applausi.