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«Dopo tutto quello che ho passato, cosa vuoi che possa farmi un uomo con i guantoni?». Costretto a gareggiare nei lager, Hertzko Haft riuscì a sopravvivere ad Auschwitz. Le SS organizzavano incontri-spettacolo nei campi di concentramento per il loro sadico divertimento. Storie di cui si parla poco, storie che segnano e lasciano tracce profonde nella vita di chi le ha vissute, non solo numeri sul braccio. La compagnia Teatro del Simposio sceglie di raccontare queste storie. Storie un po’ dimenticate, perché? Forse perché siamo abituati a vedere le vittime dei campi di concentramento solo come vittime e non come persone che cercano di sopravvivere comunque, macchiandosi le mani di sangue, compiendo anche atti crudeli... come è stato costretto a fare Harry. Lo spettacolo utilizzando un registro narrativo fra poesia e cronaca, ripercorre le tappe del cammino di sofferenza e speranza di un

sopravvissuto, grazie anche a una donna mai dimenticata, la fidanzata che Harry è stato costretto ad abbandonare. La storia del pugile dei lager è stata narrata per la prima volta dal figlio in un libro ("Harry Haft: Auschwitz Survivor, Challenger of Rocky Marciano") e poi ripresa dal fumettista tedesco Reinhard Kleist. Emigrato negli Stati Uniti, dove ha perfino combattuto contro il leggendario Rocky Marciano, Harry affida le sue memorie al figlio Alan solo nel 2003.  Un rapporto difficile anche fra padre e figlio. Una personalità complessa: vittima, carnefice, padre violento...quanto ha influito il lager in questo? La risposta è difficile da dare e non è così scontata: «mi picchiava spesso, mi prendeva anche a calci...» La novità dello spettacolo è tutta nella scelta della regia di Francesco Leschiera: riesce a muoversi fra documentazione, teatro di narrazione, di immagine, di parola, misurando bene tutti gli elementi, creando effetti a sorpresa (le scenografie Digitali Dora Visual Art ben in linea con il percorso narrativo). La drammaturgia di Antonello Antinolfi e Giulia Pes, regge il confronto scenico. Tuttavia si potrebbe valorizzare in maniera più efficace le sfumature di questa storia attraverso un’immersione meno letteraria della parola scenica: materialità e corporeità sono le caratteristiche essenziali che un testo scritto per la scena deve necessariamente avere. Su questo aspetto è possibile lavorare ancora, la teatralità di un testo drammaturgico procede anche per sottrazioni. Ettore Distasio, Giulia Pes e Ermanno Rovella bravi nel rendere le suggestioni dei loro personaggi alternando forza espressiva e delicatezza. Tre attori in scena: due uomini e una donna. La donna è una figura angelica come Beatrice di Dante, sempre in scena, ora in piedi, ora seduta, in attesa di una via d’uscita dall’Inferno mentre i due interpreti maschili si scambiano i ruoli, a turno saranno: il padre, il figlio, il carnefice. La scena come un contenitore di umanità all’interno di pareti, quasi un ring, perché la storia prende a pugni la vita di un uomo che vede infrangere i propri sogni. La shoah si racconta anche così. Francesco Leschiera sa che il regista ha una responsabilità creativa nei confronti dello spettatore e opera per non dimenticarlo. Affinché uno spettacolo funzioni il regista deve saper dosare gli elementi che ha a disposizione, egli è un tramite fra la scrittura che non gli appartiene e la messinscena che invece gli appartiene il suo scopo è condividere con generosità con la platea le impressioni, le suggestioni, i risvolti teatrali e metateatrali. Quando questo accade, lo spettacolo diventa vita. Un’altra vita vissuta dolorosamente da non dimenticare, il teatro è anche memoria.

Teatro Libero, Milano, 3 marzo 2017