Il luogo è carico di suggestioni, denso come la nebbia sul mare delle risonanze che hanno percorso e tuttora percorrono, a partire dal secolo breve dimenticato ma ineludibile, vittorie e sconfitte del lavoro, anzi del Lavoro con la elle maiuscola, quello che con la sua auto-coscienza, da conquistare giorno per giorno, forma gli uomini e le donne e la loro società. La Sala Chiamata del porto di Genova, ove nel segno della solidarietà si distribuiva ai “camalli” il lavoro gravoso e difficile dello scarico della navi liberandolo fin dove possibile dalla schiavitù di armatori e commercianti (del “Capitale” insomma), è tuttora impregnata di quelle voci e di quelle lotte mai corporative e sempre aperte al mondo, come nella piazza antifascista e insanguinata del 1960. Qui la drammaturgia di Luigi Dadina, Laura Gambi e Tahar Lamri può trovare e trova il suo spazio e il suo tempo naturale, uno
spazio ed un tempo “esteso” che va oltre i confini del teatro ma che proprio nel teatro, nella sua essenza contingente e comunitaria, conquista la dimensione paradossalmente più giusta.
Costruita dentro la sintassi di una conferenza, o anche di una assemblea sindacale continuamente richiamata e quasi rivendicata dal luogo stesso, la drammaturgia trasla il tema delle morti da sfruttamento del lavoro (l’occasione è la tragedia della Elisabetta Montanari con le sue tredici vittime nel cantiere MECNAVI di Ravenna il 13 marzo del 1987) in una dimensione narrativa surreale, e così lo incardina e lo valorizza all’interno del flusso stesso del tempo e della storia.
Si parla del Marzo (così titola sulla lavagna la eterodossa conferenza), il mese delle tragedie ed il mese in cui si chiude il ciclo invernale della morte e si apre la primavera delle rinascite, e si parla dei fantasmi del marzo, a partire da quello di Domenico Mazzotti morto in quello stesso mese e di lavoro ma nel 1947, che rivendica inesausto e inesauribile la memoria ed il ricordo dai vivi e nei vivi.
Al suo traino Luigi Dadina e Tahar Lamri, i due narratori nati entrambi nel mese di dicembre inizio di quel ciclo, è come se ripercorressero nel ritmo di quelle brevi settimane che ogni anno si ripetono, la loro intera vita, dai quartieri operai e dai lavori umili fino alla coscienza, intima ma anche diffusa, della letteratura e dell’arte scenica.
Non è teatro di narrazione perché si parla d’altro, ma parlando d’altro (di infanzia e di mare, di madri e di spaesamenti) l’evento che lo ha ispirato è come incastonato nel transito scenico, rivisitato nella recitazione e così scoperchiato nella sua essenza che non è solo economica, ma anche psicologica, estetica e fin metafisica.
Il Capitale, si sa, è capace di dominio economico che ci incatena ma è anche abilissimo a costruire suggestioni e sovrastrutture per obnubilare la coscienza di chi è assoggettato, e anche su questo piano deve essere combattuto, e in questo lo spettacolo è efficace.
Anche perché i due narratori non rimangono soli, a loro si affianca la forza della musica di Francesco Giampaoli e di Diego Pasini e del canto del rapper Lanfranco – Moder – Vicari, musica e canto che sottolineano i passaggi della drammaturgia imponendo nelle parole dette il carburante del suono che le enfatizza.
Il teatro della Albe e Luigi Dadina che, come noto, ne è uno dei fondatori, compie con questo spettacolo una felice incursione in un mondo ed in un contesto non molto frequentato dal teatro contemporaneo ma lo fa con le sue armi, non cedendo alla sociologia o meglio alla facile sociologia, lo fa con i suoi occhi che cercano oltre il contingente, pur quando tragico come in questo caso, che cercano anche oltre lo storico per afferrare il filo di una umanità essenziale e condivisa che continua a vivere, nonostante tutto, sotto il peso di maschere antiche e di nuove schiavitù.
Bene ha fatto la Camera del Lavoro di Genova ed il suo segretario Ivano Bosco a volere questa drammaturgia a Genova e bene ha fatto Massimo Nicora ad ospitarlo nella sala di quello storico circolo. Un evento raro ed un interesse che andrebbe confermato proprio per rompere la gabbia di ogni involuzione o depressione politica.
Luigi Dadina, oltre che co-drammaturgo e co-interprete, ne è anche il regista. Le scene e i costumi sono di Pietro Fenati e Elvira Mascanzoni, tecnici Ivan Casadio e Danilo Maniscalco. Serena Cenerelli ha curato l’organizzazione e la promozione di questa produzione di Teatro delle Albe/Ravenna Teatro/Ravenna Festival.
Una ultima notazione, per chi non sa chi sono i “picchettini”. I picchettini sono quei lavoratori delle riparazioni navali che praticamente a mano effettuano le pulizie delle incrostazioni in quegli anfratti e cunicoli delle navi irraggiungibili dalle macchine. Generalmente dipendenti da ditte di appalto, spesso in “nero”, sono costretti a “passare dove solo i topi possono camminare” (parola di Arcivescovo). I tredici della MECNAVI erano così e la prima preoccupazione del padrone fu quella di recuperare i libretti di lavoro per metterli in regola “post mortem”.
Uno spettacolo intenso, talora commovente, che avrebbe meritato più risonanza in città ma che è stato comunque applaudito con partecipazione dai numerosi presenti.