Teatro Civile, quando è tale nel suo senso più profondo ed efficace come quello andato in scena al Teatro della Corte di Genova martedì 10 aprile, non è solo didattica narrazione degli accadimenti che scuotono la coscienza di una comunità, ma è soprattutto la sollecitazione della coscienza di ciascuno dei membri di quella comunità, dei cives dunque che attraverso la scena possono e riescono a trasformarsi da passivi fruitori ad attori essi stessi, a partecipi intimi dell’evento mimetico. Quando cioè ciascun spettatore si fa testimone esso stesso. Così vogliamo interpretare e forse forzare, ci perdoneranno i drammaturghi, il titolo di una pièce che a mio avviso può essere appunto lo stimolo per quella sorta di trasfigurazione che ci trasforma da spettatori, anche nella società, a testimoni diffusi e non anonimi, in grado di mobilitare forze inattese e di isolare le ferite che sempre si producono
nel corpo stesso della convivenza, appunto, civile.
Le ferite di cui il dramma narra sono quelle, ulcerose e mai rimarginatesi, che in quel corpo produce la mafia, non solo nella suo rappresentarsi violento ed assassino ma anche e soprattutto nel suo infiltrarsi assoggettando a sé le regole stesse del convivere.
Scritto da Mario Almerighi, giudice recentemente scomparso, e da Fabrizio Coniglio, che la interpreta con efficacia insieme al bravo e metamorfico Bebo Storti, il dramma prende le mosse dall’amicizia forte tra lo stesso Almerighi e il magistrato Giacomo Ciaccio Montaldo ucciso dalla mafia a Trapani ma soprattutto ucciso dalla solitudine in cui fu abbandonato dalla stato in quella Procura in odore di infiltrazioni.
Unico riferimento e supporto l’amico lontano, un amico che però da quell’atto distilla la forza per testimoniare contro Giulio Andreotti (allora processato e prescritto per “concorso esterno”) e poi di ottenere l’unica vittoria giudiziaria contro il potente senatore condannato in via definitiva per diffamazione (una sentenza pochissimo nota e tra l’altro mai pubblicata da alcuna rivista giuridica italiana).
Una storia tragica ed una storia di risoluta testimonianza legate dal filo di esistenze in parte condivise e drammaturgicamente costruita proprio intorno a questo filo che libera da ogni retorica e, quasi con la leggerezza e semplicità che sempre contraddistingue il vero, ci accompagna alla vera e profonda vicinanza a quelle stesse storie.
Una scelta efficace quella dei drammaturghi che alimenta il progressivo coinvolgimento del pubblico e la sua trasformazione, e una scelta encomiabile quella dello Stabile di Genova di presentare fuori programma questa intensa drammaturgia prodotta da Tangram teatro, a pochi giorni dalla morte di uno dei suoi co-autori.
Alla fine un breve ricordo di Mario Almerighi, che passò qualche anno della sua attività proprio alla Pretura di Genova all’epoca dello “scandalo petroli”, ha chiosato con ironia la serata ricordando che il coraggio spesso alberga nella semplicità di uomini che vivono la loro vita ed il loro lavoro con spontanea adesione.
Foto Luigi Orrù